REGGIO CALABRIA «Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, lamenta la scarsa collaborazione degli imprenditori calabresi nella denuncia delle estorsioni, e si riferisce a un fenomeno reale, sul quale tutti dobbiamo interrogarci e che merita di essere affrontato in tutta la sua complessità. Proprio per questo, e a maggior ragione, chiediamo al Procuratore di ascoltare e aiutare il tessuto socio-economico a uscire da questa condizione. Siamo disponibili a incontrarlo da subito e insieme a lui individuare dei percorsi che possano portare a una immediata inversione di tendenza, attraverso un nuovo patto di fiducia che rinnovi i rapporti tra Stato e mondo imprenditoriale». E’ questa la risposta degli imprenditori reggini al procuratore De Raho che aveva parlato di scarsa propensione del mondo produttivo locale, a denunciare gli atti di intimidazione.
«La riluttanza a denunciare le estorsioni – prosegue l’associazione di via del Torrione – non presenta tuttavia i connotati di assolutezza. Tra gli esempi positivi, ci limitiamo a ricordare il coraggio dimostrato da Antonino De Masi, ma anche dagli imprenditori di Sant’Ilario dello Ionio, di Seminara e, più di recente, di Cosenza. Grazie alle denunce di questi ultimi, il territorio calabrese è stato liberato da almeno una decina di delinquenti: sono buone notizie che non vanno dimenticate. Altra importante denuncia di un’estorsione di stampo mafioso, è quella che ha portato all’operazione “Terra bruciata”, attraverso la quale sono stati assicurati alle patrie galere esponenti della cosca Libri. Ma, in questo caso, l’imprenditore Andrea Cutrupi, che ha avuto il coraggio di esporre se stesso e la propria famiglia alle ritorsioni di una potente cosca mafiosa, si è trovato a vivere il paradosso di essere raggiunto da un’informazione antimafia di tipo interdittivo, e, di fatto, è stato costretto a chiudere l’azienda, licenziando trenta lavoratori. Tra le vittime di mafia, alle quali giustamente si richiama il procuratore di Reggio Calabria, ricordiamo Antonino Polifroni, l’imprenditore edile che non si è mai piegato alle richieste estorsive e, dopo anni di denunce, di incendi dei mezzi di cantiere e di fucilate alle finestre di casa, il 30 settembre 1996 è stato ucciso a Varapodio da quattro uomini, rimasti ignoti. Ogni due anni, i suoi figli lo ricordano con un bando che prevede l’attribuzione di 18 assegni da destinare agli studenti di quel comune, al fine di sostenere il diritto allo studio ed educare alla legalità e alla pace».
«A due di questi figli – ricorda Confindustria Reggio Calabria – lo stesso Stato che non ha saputo proteggere il padre, ha riservato un’informazione antimafia interdittiva, confondendo ancora una volta le vittime con i delinquenti. È vero, dunque, che gli imprenditori calabresi sono riluttanti a collaborare con lo Stato, nella fondamentale lotta alla criminalità organizzata, ma riteniamo che le generalizzazioni non aiutino la bonifica della società dalle mafie. È per questo che stigmatizziamo il comportamento di chi, come Ivan Lo Bello, rappresentando la categoria degli Industriali, attribuisce addirittura il commissariamento di Confindustria Reggio alla criminalità organizzata, mentre le origini di quel provvedimento erano di natura puramente amministrativa. La criminalità organizzata si combatte come fanno il procuratore Cafiero de Raho, i suoi magistrati e le forze dell’ordine, e non con riflessioni che si connotano per superficialità e inesattezza. Gli imprenditori calabresi, non diversamente da quelli delle altre regioni meridionali, sono vittime di un sistema criminale, ed hanno tutto l’interesse a liberarsene».
«Proprio per questo – concludono gli industriali reggini – dobbiamo lavorare tutti assieme perché lo Stato riguadagni la fiducia delle vittime, nella consapevolezza che, senza un patto forte e leale con le popolazioni, non ci può essere vittoria contro la ‘ndrangheta. Il consenso mafioso nasce nella povertà e nel degrado sociale, ed è su quel terreno che occorre intervenire prioritariamente e con estrema urgenza. Allo Stato e ai suoi organi che, come la Procura distrettuale, operano quotidianamente per contrastare con i fatti il fenomeno mafioso, non chiediamo né sconti né condoni, ma solo un’ulteriore apertura alla collaborazione che rafforzi la fiducia delle imprese e dei cittadini nei confronti dell’apparato pubblico. Solo così (e con il coraggio che troppo spesso è mancato a noi imprenditori) qualcosa potrà cambiare. Vogliamo uno Stato aperto e inclusivo che chiuda le porte ai mafiosi ma che non marginalizzi chi già oggi è privo di voce».
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