Orlando a Reggio: serve una visione d'insieme
REGGIO CALABRIA Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, da ospite delle toghe di Magistratura democratica, riunite a Reggio Calabria per il loro congresso nazionale, non arretra di un passo sulle…

REGGIO CALABRIA Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, da ospite delle toghe di Magistratura democratica, riunite a Reggio Calabria per il loro congresso nazionale, non arretra di un passo sulle contestate riforme che il governo sta portando avanti in materia di diritto e giustizia. Provvedimenti in parte condivisi dalle toghe italiane, ma per lo più interpretati come un attacco senza precedenti alle prerogative di giudici e pm da parte di un governo più volte, negli ultimi giorni, bollato come inerte o lento su snodi fondamentali come le norme necessarie per arginare la corruzione e le mafie, ma puntuale in un attacco senza precedenti alla magistratura, disegnando – ha sottolineato non più tardi di ieri la presidente di Md, Anna Canepa – «la categoria come casta; si sono avallati, anche con martellanti campagne di stampa, i luoghi comuni sugli stipendi milionari e i privilegi ingiustificati; si sono confuse le prerogative costituzionali, a difesa di tutti i cittadini, con le pretese di impunità; si è negata l’oggettiva produttività dei magistrati italiani, certificata dai dati del Rapporto Cepei e li si è fatti diventare la causa della lunghezza dei processi. Nel volgere di una stagione, si è spostata l’attenzione dell’opinione pubblica dalla “casta” dei politici a quella dei magistrati».
L’ATTACCO DI ORLANDO
Parole cui il ministro non ha esitato a rispondere duramente, sottolineando «l’idea che la delegittimazione della magistratura derivi dalla politica e che la delegittimazione della politica venga da quanto fatto emergere con alcune indagini dalla magistratura è una parte molto parziale del racconto. Siamo in un periodo storico di crisi degli stati nazionali, della giurisdizione e della statualità ed è illusorio pensare che il recupero della legittimazione degli uni arrivi dalla delegittimazione o del contenimento del ruolo degli altri. La globalizzazione ha espropriato gli Stati nazionali delle capacità di intervento». Un modo per mettere in guardia le toghe dal rischio di perdere anche se stesse e il proprio ruolo in uno scontro con la politica, forse autistico e scollegato dalla realtà concreta, che colloca le leggi e chi è chiamato tanto alla loro produzione come alla loro applicazione a un confronto con processi molto più ampi. «Va recuperato il dato della storicizzazione della funzione della giurisdizione, perché la sfida del cambiamento è una cosa cui non ci si può sottrarre, pena la perdita di legittimazione. La giurisdizione deve cambiare non perché lo chiede la politica, ma perché è dentro un processo di rinnovamento complessivo». Una premessa complessa, raffinata, che parte da lontano per arrivare a quella che sembra – almeno nelle dichiarazioni – una proposta di tregua. «Non credo che la magistratura sia una casta, ma non credo che neanche la politica sia una casta. Forse dovremmo riconquistare un’autonomia di pensiero che non sia così schiacciata su una visione antipolitica, che rischia di non risparmiare nessuno e finisce per travolgere le istituzioni in tutte le sue articolazioni». È a partire da qui che il ministro passa a rivendicare l’azione del suo governo in materia di giustizia, a suo dire spesso diluita in un «dibattito stucchevole su quali siano le priorità».
NECESSARIA UNA VISIONE DI INSIEME
Sulla giustizia – spiega – è necessario avere una visione d’insieme, senza presumere che questo o quel provvedimento abbiano – sostiene – una corsia preferenziale rispetto ad altre. «Siamo in una situazione per cui abbiamo messo le priorità sul tavolo a giugno, le abbiamo trasformate in leggi ad agosto e le porteremo fino in fondo perché sono tutte priorità. Siamo partiti dal civile», ma afferma: «Non è vero che il governo ha deciso di trasformare la responsabilità civile dei magistrati una priorità, c’era una legge già in discussione e abbiamo deciso di intervenire perché non eravamo d’accordo su una serie di aspetti della legga come la responsabilità commisurata al danno, sulla responsabilità diretta e su quella diretta surrettizia. Trovo paradossale che ci si rimproveri che sia divenuta una nostra priorità».
Ma la liste delle cose inaccettabili nelle inquietudini denunciate dalla magistratura non finisce qui. Al ministro non va bene che ci si continui a lamentare per le carenze di organico. «Nella legge di stabilità, in un panorama generalizzato di tagli alla spesa pubblica, per il settore Giustizia sono stati previsti investimenti per 250 milioni di euro in tre anni. C’è un bando per la mobilità per il personale delle ex Province, una parte di queste le destineremo solo allo smaltimento dell’arretrato nella giustizia civile, per la prima volta sono stati acquisiti fondi europei». Toccherà invece al Csm – ricorda il ministro – «decidere chi dirigerà i vari uffici» sulla base di criteri – auspica – «che tenga conto della produttività dei magistrati». E se infine quella riforma sulla responsabilità civile dei giudici creerà problemi – anche se si dice scettico al riguardo – ci sono sempre le possibilità – concede Orlando – di riaprire un confronto, ma che sia necessariamente di sistema.
«NON SONO COMPROMESSI AL RIBASSO»
Un confronto che quando una maggioranza politica omogenea lo consentirà, a detta del ministro dovrà riguardare anche il codice penale nel suo complesso, ma che «mi auguro non succeda mai in questa legislatura. La possibilità di affrontare in maniera organica il codice penale deriva dalla condizione politica e se lo facessimo adesso, con questo governo, verrebbe fuori un mostro. Possiamo introdurre degli elementi di razionalizzazione». Elementi che riguardano ad esempio la corruzione, con la discussione sull’introduzione di fattispecie come l’autoriciclaggio e il falso in bilancio, che per Orlando non sono dice compromessi al ribasso, come non è un compromesso al ribasso quello che sembra essere stato raggiunto sul ddl anticorruzione e sulla prescrizione, che tuttavia – sottolinea – dovrà passare anche per una riflessione sul rapporto fra lo Stato e le lobbies. «La prescrizione è diventata un tema salvifico, ma non si può analizzare se non nel contesto della riforma del processo penale. Ma potrò dare un responso solo col testo definitivo e quando avremo l’incardinamento del testo sulla riforma del processo penale. Non possiamo dire che 21 anni sono tanti o poco se non sappiamo quanto dura un processo, se diventa più rapido il termine di 21 anni va sicuramente rivisto. Inoltre la specificità di alcuni reati giustifica tempi di prescrizione diversi». Il governo poi – rivendica – sta introducendo una serie di novità legislative di cui non si parla, ma che potrebbero contribuire materialmente alla gestione di un sistema complesso e in affanno, che vanno dalla depenalizzazione di alcuni reati, alla nuova attenzione per le misure alternativa al carcere, insieme a un ripensamento più complessivo dell’esecuzione stessa della pena.
MENO STATO, PIU’ MAFIA
Infine, l’ultima – breve – parte del suo intervento il ministro la riserva alla piaghe delle mafie: «Non bastano i processi a cancellare mafia e corruzione, se la politica non esercita la propria funzione non ci sono surrogati. Adesso ci sono partiti deboli e Stato debole e noi abbiamo la necessità di costruire uno Stato forte e corpi intermedi forti, perché a loro tocca il compito di selezionare la classe dirigente. Oggi lo Stato è fragile. Non penso che si possa continuare a raccontare la mafia come aggressione ai corpi dello Stato ma come cartina tornasole della crisi dei corpi intermedi e delle classi dirigenti del Paese. È necessario rilanciare la democrazia, la statualità, la partecipazione. La strada non può essere solo un restringimento degli spazi decisionali. Una decisione presa troppo tardi è inutile, una presa in troppo poche persone crea uno scollamento con la società. Per questo è necessar
io aprire il dibattito sulle forme di partecipazione e alle decisioni dello stato. Se oggi la corruzione dilaga è perché è passata l’idea che lo Stato sia inutile, per questo è necessario un protagonismo della parte progressista della magistratura». Poi il ministro va via. E mentre sfila attorniato da guardie del corpo, aiutanti e portavoce c’è chi mormora: «Gli hanno detto che era a Reggio Calabria?». Nelle parole del ministro non c’è stato neanche un riferimento alla trincea avanzata dello Stretto, assediata da una criminalità organizzata che qui ha la sua testa.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it