Quando si parla di riforme in una materia tanto delicata e complessa, come quella delle intercettazioni telefoniche e ambientali, bisognerebbe seguire alcune avvertenze fondamentali, indispensabili per evitare di combinare pasticci indigeribili: Regola numero uno: Evitare riforme sulla base di cosiddette emergenze, di casi singoli presentati come inaccettabili e scandalosi. In Italia, è quello che accade regolarmente da molti anni. Di riforma delle intercettazioni si parla, in automatico, ogni volta che dai tanti processi che segnalano lo scenario criminale che costituisce il collante di politica, appalti, corruzione e sperpero di pubblico denaro, viene fuori il nome di un personaggio politico e, quanto più quel personaggio è autorevole e potente, tanto più è forte l’indignazione dei benpensanti di mestiere. In altre occasioni, dopo la bufera iniziale, le acque lentamente si erano placate e i progetti di riforma vennero rimessi nel cassetto. Ma questo è un governo decisionista e c’è da attendersi di tutto: anche che la riforma delle intercettazioni si faccia davvero. Per fortuna riguarderà solo la pubblicazione del loro contenuto, e non i poteri di usare questo straordinario mezzo di acquisizione della prova.
E allora se davvero si vuol mettere mano alla materia, occorre precisare che il doveroso rispetto della cosiddetta privacy, ma meglio sarebbe dire, in lingua italiana, sfera della vita privata di ciascuno di noi, impone che non vengano mai utilizzate e tanto meno pubblicate quelle conversazioni che riguardano la vita sentimentale, sessuale, le condizioni di salute, le tendenze sessuali, le scelte religiose, i rapporti infrafamiliari, i rapporti professionali. Questo livello deve essere definito impenetrabile, a meno che non riguardi direttamente le motivazioni o le circostanze del reato. C’è poi un’area “grigia”, dentro la quale si collocano le conversazioni che non pur non riguardando la sfera privata che ho definito intangibile, non attiene direttamente a esigenze probatorie, ma costituisce pur sempre un utile quadro del contesto dentro il quale le fattispecie di reato si collocano, trovano alimento, adesione e giustificazione. In questo caso è il giudice l’unico a dovere decidere quali conversazioni siano utili ai fini della motivazione del proprio convincimento prima e del proprio provvedimento poi e quali invece irrilevanti e da scartare, valutazione insindacabile se non con gli strumenti previsti dal sistema processuale (impugnazioni). Senza contare che le dichiarazioni relative al contesto nel quale la vicenda si inserisce potrebbero contenere elementi a favore degli indagati.
Scatta a questo punto la regola numero due: Tenersi scrupolosamente dentro il recinto delle norme costituzionali, quelle in materia di tutela della giurisdizione, della libertà di informare e del simmetrico diritto dei cittadini di essere informati su aspetti di rilevante interesse pubblico, come quello che attiene alla correttezza giuridica e morale del personale politico. Il legislatore dovrà avere la capacità di trovare un punto di equilibrio, evitando scorciatoie repressive e tentativi di mortificazione di diritti costituzionali essenziali per la nostra democrazia. L’idea, a esempio, di imporre al giudice limiti e divieti di riportare conversazioni per esteso, è semplicemente improponibile. La motivazione di un qualsiasi provvedimento giudiziario è l’essenza stessa della giurisdizione e imporre dall’esterno regole di qualsiasi genere significa intaccare l’autonomia e l’indipendenza della funzione giudiziaria. Anni fa un deputato, magistrato con l’hobby della politica, aveva proposto il divieto per i magistrati di svolgere attività interpretativa della norma, dovendosi limitare alla mera applicazione della legge. La pregressa attività giudiziaria non era valsa ad impedirgli di formulare una proposta così bislacca, dal momento che la funzione giudiziaria consiste proprio nell’interpretazione della norma al fine di consentirne l’applicazione al caso concreto. Non vorremmo ricadere in simili infortuni costituzionali, così come altrettanto incostituzionale sarebbe l’idea del reato di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni da parte dell’informazione, dal momento che la giurisprudenza della Cedu ha riconosciuto il diritto all’informazione in presenza di argomenti di rilevante interesse pubblico e l’illegittimità di misure repressive al riguardo. C’è poi da considerare il diritto dell’indagato e della difesa di conoscere compiutamente quali sono i passaggi delle conversazioni che vengono considerati prove di responsabilità e non potrebbe certo bastare la sintesi che ne fa il giudice che dispone la misura cautelare. Insomma, un’ipotesi da scartare immediatamente per incostituzionalità manifesta.
Rinviare poi, come pure è stato proposto, la possibilità della pubblicazione delle conversazioni intercettate solo quando il processo arriva a dibattimento, e neppure integralmente, sarebbe, a mio avviso, la negazione del diritto della collettività a conoscere tempestivamente i lati oscuri, a volte illegittimi, a volte solo immorali, delle logiche di potere, conoscenza indispensabile in un paese che per decenni è vissuto all’ombra dei segreti inconfessabili di poteri che hanno gestito stragi, omicidi politici, complotti e trame, solo in parte disvelate e nella maggior parte dei casi grazie all’informazione più che agli accertamenti giudiziari. Lasciare il paese nell’ignoranza di ciò che avviene fuori della scena ufficiale, dietro le quinte, significa aggravare il deficit di democrazia che già caratterizza la nostra vita politica, nella quale molte delle scelte che determinano la nostra vita, soprattutto in economia ma non solo, sono prese, o imposte, fuori dalle sedi istituzionali, nella migliore delle ipotesi in sedi istituzionali esterne (Bce, Fondo monetario internazionale, foverni stranieri), a volte in sedi occulte (logge massoniche anche straniere, finanzia internazionale, multinazionali e poteri criminali). L’antidoto è quello di aumentare il tasso di trasparenza della nostra democrazia, non certo di aggiungere opacità e copertura al sistema di impunità, in nome del quale si invoca il bavaglio dell’informazione.
*Magistrato
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