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La "liberazione" del Sud passa anche da qui

Joe Sacco – forse il più noto autore di grafic journalism – il mondo l’ha raccontato con una matita e colori pastello. Nessuna visione edulcorata, ma tanti neri carichi, ricalcati: il sangue versat…

Pubblicato il: 23/04/2015 – 14:32

Joe Sacco – forse il più noto autore di grafic journalism – il mondo l’ha raccontato con una matita e colori pastello. Nessuna visione edulcorata, ma tanti neri carichi, ricalcati: il sangue versato nei decenni in punti caldi come l’Iraq, l’India o i territori palestinesi. A leggere – e a guardare – i suoi resoconti, soprattutto quello del Tribunale dell’Aja per l’ex Jogoslavia, dove le accuse di genocidio hanno il peso di un furto di mele al mercato, si fanno i conti con la nausea per gli abusi e con le anime dei morti che invocano una giustizia che – per la lontananza dai potenti e per la vicinanza che invece hanno avuto i loro aguzzini – forse non troveranno mai.
Mario Mercuri, Carlo Bazan e Carlo Rispoli, si sono fatti carico dello stesso pesante compito per quello che riguarda il Sud con la grafic novel “La coccarda rossa”. Perché, se volessimo renderci protagonisti di una sorta di campanilismo infruttuoso, potremmo dire che a noi non serve né andare nell’Europa dell’Est, né ricordare le parole di questi giorni di Papa Francesco – pesanti, sacrosante – sul genocidio degli armeni.
Anche i nostri “briganti” invocano una giustizia che libri, storici e politica sembrano negargli. Non vuole fare i conti con un passato cruento, fatto di ricchezze “traslate” dal Sud al Nord, di violenza gratuita e di omicidi di massa, chi vede in Lombroso – cui tuttora è intitolato un rispettato museo – uno “scienziato”. Fa finta di non sapere chi, come gli esponenti della Lega, continuano l’opera di Cavour e compari tentando di relegare il Meridione in una condizione di subalternità, per portare avanti quel Nord ligio al dovere e retto che, grazie alle inchieste degli ultimi tempi, si è capito sia solo una favola.
È in uno scenario culturalmente e socialmente desolante come questo che una grafic novel – proprio come i “reportages” di Sacco – assume peso notevole. Non si deve fare l’errore di credere che un fumetto possa essere poco importante e, dunque, portare con sé risvolti minori. Perché la rinascita di un Sud prima fiorente e dopo bistrattato passa dalle nuove generazioni, dai più piccoli, dalle scuole. Dove la storia, dopo essere stata riscritta, può essere ritrasmessa. Dove un fumetto può diventare una lettura gradevole e allo stesso tempo necessaria, da diffondere come dovere morale.
Bambini e ragazzi – forse più degli adulti – potrebbero essere ben più propensi a comprendere che Garibaldi non era poi quell’eroe dei due mondi che tutti raccontano, ma che un mondo – quello ricco e culturalmente all’avanguardia del Sud – aveva contribuito con i suoi motti di obbedienza (non è stato il solo) a cancellarlo. Che in Calabria e nelle altre regioni meridionali, l’esercito regolare sparava – come racconta efficacemente “La coccarda rossa” – su persone disarmate, e si effettuavano fucilazioni di massa di gente accusata di “manutengolismo”, cioè di sostenere la guerriglia dei cosiddetti briganti. Un altro, di esercito, nella grafic novel guidato dall’ex sottufficiale del reggimento degli Ussari Nicola Cardone (per i personaggi e per le vicende è stato fatto riferimento a documenti di archivio) reagiva alle angherie e combatteva in nome di Francesco II di Borbone, che nel fumetto affida le sue memoria a un giornalista. Leggendo, sembra quasi di assaporare uno spirito di iniziativa ormai sopito: dopo l’assedio di Gaeta – “raccontano” Mercuri, Balzan e Rispoli – un ordigno esplodendo manda in frantumi la finestra della regina Maria Sofia. Sul pavimento cadono schegge di metallo arricciato, e da quel giorno i sostenitori dei nostri “partigiani” – che provenivano da tutta Europa e soprattutto dalla Spagna – portano al dito anelli di zinco per riconoscersi. Un invito implicito all’unità per una causa (purtroppo) ancora attuale, perché il Sud, esattamente come allora, vive in condizione di palese subalternità. Di anelli di zinco sulle dita dei politici e storici o dei componenti della società civile, però, salvo qualche realtà sparuta, e dopo più di 150 anni da un’Unità solo nominale – non se ne vedono ancora.

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