A Cosenza il "reality Amleto"
COSENZA A sipario chiuso, i rumori che provengono al di là del boccascena sembrano quelli di piedi che ritmicamente corrono. Dalle prime file della platea, si possono intravedere le ombre che avallan…

COSENZA A sipario chiuso, i rumori che provengono al di là del boccascena sembrano quelli di piedi che ritmicamente corrono. Dalle prime file della platea, si possono intravedere le ombre che avallano la prima impressione. La scena, adesso libera da qualsiasi ostacolo, riconsegna l’immagine di tre uomini che corrono a cerchio. Sono a petto nudo; indossano delle calzamaglia nere e i loro volti sono coperti da maschere da scherma, scure anch’esse. In vita, un cinturone lega l’uno all’altro grazie un cordone elastico. Nero, anche quello. Il quadro che ritorna al pubblico è quasi spettrale: la scena è vuota, “abitata” solo dalle note di Dmitri Shostakovich e dalla reiterata e metodica danza. Dura a lungo, un tempo appena sufficiente da sembrare interminabile, ma serve ad abituarsi a loro come presenza “oscura”; scolpiti nei corpi e precisi nei movimenti. Parte così l’Amleto del “Collettivo Cinetico”, in scena venerdì sera al teatro Morelli di Cosenza, scelta favorita dalla compagnia Scena verticale diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano per questo nuovo inizio di stagione teatrale, che inaugura anche il “More Young 2016”, rassegna che vuole favorire e promuovere giovani compagnie under 35 attive sul territorio nazionale.
IRRUZIONE IN SCENA Una voce off irrompe sulla scena e pone fine alla partitura ritmica e fisica. «Buonasera, benvenuti. Questo è Amleto di Collettivo Cinetico». Si entra in medias res: «Lo spettacolo consiste in un’audizione per il ruolo del protagonista, Amleto. Gli spettatori saranno chiamati a votare per scegliere gli attori che preferiscono tra i quattro candidati di questa replica». Entrano in scena quattro uomini vestiti di nero e dal volto coperto con una busta di carta a cui sono stati fatti due fori per lasciare spazio alla vista. Continua la voce. «Ciascuno di loro ha ricevuto un manuale via mail per “essere o non essere” Amleto». I partecipanti si sono presentati a teatro e sono entrati in scena senza aver preso parte a prove. «Candidati, questo è il palcoscenico su cui vi sfiderete». La sfida di cui parla Francesca Pennini – voce, coreografa e regista di questo spettacolo – riguarda quattro prove a eliminazione. Scarnificando il testo shakespeariano, si chiede ai concorrenti di cimentarsi in prove di gestualità, azione, interpretazione e memoria dei movimenti, oltre alla messa in scena di qualche atto della tragedia.
SMEMBRATO Shakespeare è presente così: smembrato dalla sua forma originale, alcuni elementi cardini del Principe di Danimarca “vivono il palco” (le otto azione che Amleto compie dal primo al quinto atto; la vendetta, la malattia mentale, le nozze tra la madre e lo zio; la morte di Gertrude, Claudio e Amleto e quell'”essere o non essere” affidato all’Amleto eletto dal pubblico grazie a un applausometro collocato sul palco dalla prima americana).
SCACCHI Ci si sente spettatori di una partita di scacchi: ogni azione è controllata, senza che ci sia spazio per sbavature. L’unica improvvisazione riguarda le interpretazione dei candidati su testi – però – imposti dalla “voce”. A ogni morte l’ordine di rimanere a terra e il corpo viene delimitato da linee bianche. Solo dopo la vittoria dell’Amleto, gli uomini a terra vengono accompagnati dietro le quinte.
L’azione è giocata su tre livelli: il primo, è quello della voce off che, come un deus ex machina, decide ciò che i candidati devono compiere. La seconda è affidata ai perfomer (Carmine Parise, Angelo Pedroni, Stefano Sardi), che muovono i possibili Amleto come fossero pedine. Ogni singolo gesto parte da loro e a loro ritorna. Come gli ingranaggi di una macchina perfetta, i tre atleti sono bracci meccanici che veicolano gli spostamenti collaborando tra loro, cosicché dal primo di essi parta il movimento del secondo, mentre un terzo tiene un faro puntato ad altezza d’uomo al centro della scena. Seppur impeccabili, non c’è identità o spessore psicologico in questi tre uomini. L’ultimo livello d’azione riguarda gli enormi elastici neri che, fissati a una struttura in ferro ben ancorata sulla sinistra del palco, limitano le possibilità di movimento degli atleti che saranno sempre frenati nella loro corsa. A conti fatti, questo Amleto è la rappresentazione della soppressione della libertà. Non c’è scelta che possa nascere da Amleto; neanche quando verrà eletto il vincitore della competizione. Le risate che hanno accompagnato una prima parte, lasciano il posto al grottesco che caratterizza il resto dello spettacolo. È claustrofobico e la vera follia di Amleto è nelle corde che, cingendo la vita del protagonista, lo legano ai tre fantocci negandogli definitivamente la possibilità di scelta. Si ripetono le otto azioni che scandiscono i cinque atti. Ne subisce i gesti, tre, quattro volte. Poi riprende la corsa. I piedi scandiscono le note di Dmitri Shostakovich. Riprende la partitura ritmica e il disegno cinetico che ha fatto da prologo a questa “coreografia”. Amleto è uno e parte del gruppo, adesso. Ammanettato a uomini le cui maschere rimandano a quella del boia, cala il sipario ed è ancora là dietro. Arrivano i tonfi pesanti dei piedi dalla scena. Il cerchio iniziale si è chiuso. Sempre in catene Amleto corre, vincolato alla scena in una prigione, senza potere mai uscire da questo continuo ripetersi di se stesso.
Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it