«È lui "faccia di mostro"»
PALERMO «È lui faccia di mostro». Li visti sfilare, li ha scrutati con attenzione, poi – fra quegli uomini tutti volutamente simili – Vincenzo Agostino ha puntato il dito contro di lui, l’ex agente d…

PALERMO «È lui faccia di mostro». Li visti sfilare, li ha scrutati con attenzione, poi – fra quegli uomini tutti volutamente simili – Vincenzo Agostino ha puntato il dito contro di lui, l’ex agente della Squadra Mobile di Palermo Giovanni Aiello. Per Agostino, è lui ad aver trucidato il figlio, l’agente Nino Agostino, freddato il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini, insieme alla moglie Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi. Ma per gli inquirenti di tre procure – Caltanissetta, Palermo e Reggio Calabria – «faccia di mostro» è anche il misterioso killer di Stato evocato da collaboratori e testimoni in diversi episodi torbidi della storia recente della Repubblica come il fallito attentato dell’Addaura, l’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo, a Reggio Calabria. Nel riconoscerlo, Vincenzo Agostino non ha tentennato. Solo dopo – forse per l’emozione, forse per la tensione di una battaglia lunga 27 anni e che la sua lunga barba bianca testimonia – ha avuto un malore che ha costretto il 118 a intervenire. Nulla di grave. Nel giro di poco, Agostino si è ripreso ed è uscito dall’aula insieme alla moglie e alle figlie per incontrare chi negli anni ha voluto sostenere la sua battaglia per la verità e oggi lo ha scortato fino all’aula bunker di Palermo. «Vi sono grato – ha detto – oggi è un momento importante. Ma bisogna continuare a lottare per la verità e la giustizia».
E IN CALABRIA? Una battaglia che passa anche dalla Calabria. Perché Faccia di mostro ha anche una storia calabrese e adesso potrebbe – quanto meno in teoria – essere chiamato a spiegarla. La Procura di Reggio Calabria da tempo batte le piste che dai misteri calabresi sembrano ricondurre ad Aiello. Nel febbraio 2014, anche per ordine del pm Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria, sono stati perquisiti tre immobili – due in Sicilia e uno in piazza Wagner a Milano – a lui riferibili. L’esito delle indagini sul materiale sequestrato durante quella perquisizione è ancora top secret, ma un dato è emerso già in maniera chiara: per tanti anni Giovanni Aiello ha mentito.
LE BUGIE DI AIELLO Lui, che ha sempre dichiarato di non aver messo più piede in Sicilia da quando nel ’76 è stato congedato, neanche per andare a far visita al fratello, sull’isola ci è andato. E anche di recente. Lo dimostrano due biglietti della Caronte & Tourist – andata il 7 novembre 2011, ritorno 5 febbraio 2012 – che gli investigatori hanno trovato nella sua casa di contrada Botterio, a Montauro, nel Catanzarese. Allo stesso modo, sembra aver mentito sulle sue attività dopo aver svestito la divisa, se è vero che nella casa di contrada Botterio, gli uomini della Digos di Roma hanno trovato quattro ricevute di deposito titoli per un valore superiore a un miliardo delle vecchie lire.
PESCATORE VIAGGIATORE Allo stesso modo sembrano smentire l’immagine che Aiello in questi anni ha voluto dare di sé – un modesto pescatore autoesiliatosi in un piccolo borgo calabrese – video, cartoline e biglietti di viaggio che raccontano i – numerosi – viaggi che dal ’76 Aiello ha fatto. Da allora, il misterioso ex poliziotto è stato in Svizzera, quindi per due anni consecutivi – nel 2003 e nel 2004, dicono dei video rinvenuti nell’abitazione di contrada Botterio – a San Diego, negli Stati Uniti, più volte a Venezia, a Brescia, almeno per due anni consecutivi a Torino, sempre nello stesso periodo, e Mantova. Tutti elementi vagliati da inquirenti e investigatori, che nelle carte e soprattutto tra i file sequestrati ad Aiello sperano di trovare il bandolo della matassa dei crimini di “faccia di mostro” in Calabria.
IN CALABRIA Le tracce del misterioso killer di Stato evocato da più pentiti affiorano soprattutto in quei tumultuosi quanto misteriosi anni Novanta, che hanno visto tacere le armi della guerra di mafia, affermarsi una nuova struttura delle cosche reggine, ma soprattutto hanno visto consumarsi incontri e trattative ancora in parte occulte. Pagine, rapporti ed episodi ancora oscuri della storia di Reggio e delle sue ‘ndrine, che sarebbero da inscrivere nella storia grande – e non ancora raccontata – della trattativa Stato mafia, di cui “faccia di mostro” sarebbe stato uno degli alfieri.
I MISTERI REGGINI È questa l’ombra che grava su episodi ancora oscuri, per troppo tempo – forse – derubricati a casi di criminalità spicciola, come la scomparsa di Francesco Calabrò – il fratello dell’ex collaboratore Giuseppe, il cui corpo è stato “casualmente” trovato circa un anno fa – e degli omicidi degli appuntati Fava e Garofalo e quella stagione di attentati all’Arma che insanguinò le strade di Reggio nel ’94. Vicende – come già emerso in passato in ricostruzioni giornalistiche – intrinsecamente legate e di cui anche l’ex pentito Nino Lo Giudice aveva parlato nei suoi memoriali. «Tornando sull’uccisione del carabinieri – scriveva il Nano – devo raccontare che il Villani mi disse che a uccidere quel poveri padri di famiglia era stato personalmente lui, e che l’auto usata in quella azione era di proprietà del suoi genitori, e che era guidata dal Calabrò».
DALL’OMICIDIO DEI DUE CARABINIERI ALLA SCOMPARSA DI CALABRÒ Un crimine orrendo – di cui Lo Giudice aveva parlato in dettaglio anche nel primo memoriale – ma non isolato. In quei mesi, ci saranno almeno altri due episodi simili, ai cui autori nel giro di poco gli inquirenti fanno presto a dare un nome e un volto. In breve, arrivano a Giuseppe Calabrò, uomo di fila dei Ficara- Latella e con parentele pesanti tra le ‘ndrine della Piana. Sarà lui, dopo aver iniziato un controverso percorso di collaborazione, a far individuare Maurizio Carella, Vittorio Quattrone e Pietro Lo Giudice, come componenti del commando. Fa ritrovare anche l’auto – una Regata – usata per l’agguato di Scilla e la mitraglietta, mentre la sua famiglia, pur di screditarlo, arriva a contattare anche due medici di fama chiamati a diagnosticargli una presunta patologia psichiatrica che i periti della Procura non riscontrano. Nel frattempo, nelle maglie delle indagini però finisce anche Consolato Villani, nipote di Pietro Lo Giudice, all’epoca minorenne. Giudicato dal Tribunale dei minori, sarà l’unico – insieme a Calabrò, che nel giro di poco tempo ritratterà tutto e uscirà dal programma di protezione – a essere condannato.
ARCHIVIATE TROPPO IN FRETTA? Nonostante sui destinatari di quei traffici non sia mai andati oltre le congetture, per i giudici Calabrò e Villani sono i responsabili di quelle azioni di fuoco, servite per sfuggire ai controlli che avrebbero svelato un importante traffico di armi e di droga. Una ricostruzione che polverizza le prime ipotesi – sussurrate a mezza bocca in Procura e filtrate sulla stampa locale e non – che leggevano negli attentati un tentativo di intimidire lo Stato e fanno transitare in un comodo dimenticatoio quella telefonata anonima arrivata in quel periodo all’hotel Palace di Reggio, che all’epoca ospitava la sede del Comando Intermedio di Rappresentanza dei carabinieri, che prometteva: «Questo non è che l’inizio di una strategia del terrore».
LE RIVELAZIONI CALABRESI DI SPATUZZA Sarà necessario aspettare il 2009 perché nuovi elementi riaprano quelle pagine in fretta dimenticate della storia calabrese. Gaspare Spatuzza, braccio destro dei boss Graviano, ai pm rivela che il boss Graviano nell’autunno del ’93 avrebbe dato l’ordine di commettere nuovi attentati per fare pressione sui referenti istituzionali dell’epoca. «Si deve fare per dare il colpo di grazia – mette a verbale Spatuzza –, Graviano mi disse che dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si sono mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri e quello era il luogo dove potevano essercene molti, almeno 100-150». I due carabi
nieri di cui parla Spatuzza – suggeriscono le date – non sono Fava e Garofalo. Il loro omicidio sarà successivo a quell’incontro fra il collaboratore e Graviano.
LE AMMISSIONI DI VILLANI Ma che quegli strani conflitti a fuoco, che hanno insanguinato il reggino tra il ’93 e il ’94, possano avere a che fare con una strategia complessiva molto più articolata – e che va bene oltre la Calabria – è più di un elemento a dimostrarlo. E c’è soprattutto un pentito, Consolato Villani – accusato da Nino Lo Giudice di aver ucciso, plausibilmente per metterlo a tacere, il fratello dell’ex pentito Calabrò – che sembra essere in possesso di informazioni al riguardo. Un’ipotesi che lo stesso Villani in pubblica udienza è sembrato in grado di confermare. Interrogato come testimone al processo Meta, riguardo l’omicidio dei due carabinieri ricorda: «Io ero alla guida della macchina, Giuseppe Calabrò era al mio fianco. Fu lui a sparare. Stavamo trasportando armi da guerra, fucili e mitragliette». Il collaboratore è sorpreso, al pm Giuseppe Lombardo che lo esamina dice: «Come lei ben sa, dottore, non posso parlare dell’episodio». Ma a Lombardo non servono i dettagli, in quella sede al pm basta una sola informazione che – allo stato – può permettere a Villani di rivelare: «Lei si limiti a confermare o smentire se si è trattata di un’azione programmata o meno», incalza il pm. E Villani non può che confermare: «Sì dottore, programmata». Da chi e perché, Villani non è autorizzato a dirlo. Ma l’eco delle ragioni ultime di quell’azione di fuoco riecheggia nelle parole del pentito Spatuzza, che a Reggio in tanti hanno fatto finta di dimenticare.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it