Il "fratello" del Capo-crimine
REGGIO CALABRIA «Enzo secondo me, a livello di importanza, era il più importante di tutti, secondo solo … secondo me secondo solo ai De Stefano Peppe e Carmine». Rischia di complicarsi – e di molto…

REGGIO CALABRIA «Enzo secondo me, a livello di importanza, era il più importante di tutti, secondo solo … secondo me secondo solo ai De Stefano Peppe e Carmine». Rischia di complicarsi – e di molto – la posizione di Vincenzo Zappia, uomo del clan De Stefano-Tegano, attualmente imputato nel procedimento abbreviato “Il Padrino”.
NUOVI ATTI A VERBALE Proprio per precisare la caratura criminale dell’uomo e – a cascata – di quanti con lui si relazionassero, il pm Giuseppe Lombardo ha chiesto al gup di acquisire agli atti del procedimento, l’intero fascicolo – già depositato – dell’indagine “Il Principe”, che nel dicembre scorso ha portato all’arresto anche del reggente Giovanni De Stefano, ma soprattutto tre verbali del pentito Enrico De Rosa. Al riguardo, il giudice si pronuncerà il prossimo 18 marzo, all’esito degli interventi delle difese. Ma il quadro – nonostante i pesanti omissis – che da quelle dichiarazioni emerge è pesante per Zappia. Di lui, il collaboratore può parlare con cognizione di causa. Per anni si sono frequentati e hanno vissuto gomito a gomito. Per questo oggi De Rosa è in grado di tracciare un profilo estremamente preciso di quello che più volte – in diversi verbali – ha definito il rappresentante di Giuseppe De Stefano fuori dal carcere.
IL FRATELLO DI PEPPE DE STEFANO «Vincenzino Zappia, in assenza di Giuseppe De Stefano, per dire tipo, come spesso ha detto anche lui, che Giuseppe De Stefano era suo fratello, inteso non suo fratello di sangue, che carnalmente erano fratelli, ma intesa fratelli come di ‘ndrangheta» – dice il 7 ottobre 2014 il pentito – « Vincenzino Zappia comandava ad Archi, comandava per quanto riguarda, a mio dire rappresentava i De Stefano». In virtù del rapporto ombelicale con il capocrimine – per il quale, a detta di De Rosa, sarebbe stato disposto a dare anche la vita – è toccato proprio a Zappia presidiare il territorio, quando arresti e condanne hanno relegato i vertici del clan dietro le sbarre. «Forse – afferma il pentito – la figura poi è stata coadiuvata quando è uscito Giovanni De Stefano», ma anche sul Principe, Zappia ha dimostrato di avere un ascendente sconosciuto agli altri affiliati. E soprattutto di potersi permettere libertà inammissibili ai più.
I RIMPROVERI AL PRINCIPINO Come molti, Zappia si riferiva a De Stefano chiamandolo “Il Principe”, ma – spiega il collaboratore – « tra virgolette a sfottò, perché diceva che non aveva lo stesso piglio e lo stessa coso di Giuseppe de Stefano, spesso faceva il paragone e diceva che si metteva appresso alle cazzate, che era poco,.. era un po’ inconcludente». Addirittura, riferisce il collaboratore, si poteva permettere il lusso di imitarne goliardicamente i modi di fare. «Ogni tanto lo imitavano che si “llisciava” tipo,.. Perché Cianni portava i capelli rasati no? Si “Iliisciava” il capello, la magliettina.. sempre perfettino». Fin troppo perfettino secondo Zappia. E fin troppo leggero nei comportamenti.
“DUE SCHIAFFI E MI ANDAVA BENE” Come quando – racconta il collaboratore – da sorvegliato speciale si fa fermare in compagnia di Mico Sonsogno. «Enzo gliene ha dette di tutti i colori, “cane malato! carrialando!” a Giovanni, lo schifiava proprio» ricorda De Rosa. Ma lui, dice, se lo poteva permettere. «Nel senso che Enzo Zappia è una persona molto importante tipo .. alla luce, per dire, dei suoi trascorsi, è una persona tipo molto importante, in questo senso (..) ha la facolta di mandarlo affanculo, cosa che non ho io. lo se lo mando affanculo mi prendo due schiaffi. E mi è andata bene, non so se mi spiego».
UN UOMO VECCHIO STAMPO Si spiega bene il collaboratore De Rosa e ad investigatori ed inquirenti mette in mano circostanze, aneddoti e circostanze che svelano il reale ruolo di Zappia. Picciotto di Archi, divenuto killer affidabile durante la seconda guerra di ‘ndrangheta è stato scelto dal capocrimine Giuseppe De Stefano come suo uomo in città. Una scelta estremamente oculata. Nonostante abbia da poco superato i quarantasette, Zappia è considerato un saggio, un uomo della vecchia guardia, che ha conquistato sul campo i gradi che lo hanno portato ai massimi livelli del clan. P r questo è rispettato tanto dai giovani, come dagli anziani. Estremamente prudente e schivo «Enzo Zappia – spiega il pentito – è per dire, una persona molto seria e riservata, difficilmente lo vedevi tipo che se ne andava in pizzeria a fare baldoria o farsi notare on altri saggetti della ‘ndrangheta o anche con altri soggetti in generale». In più, racconta De Rosa al pm Musolino, «non era uno che si metteva a dare confidenza a tutti, anzi si limitava a piccole dosi con le persone. Mi ricordo che ogni tanto Mimmo chiamava Enzo per dirgli che Checco (Zindato ndr) gli voleva parlare ed Enzo gli diceva che lui con quel “pisciaturi” non poteva parlare, perchè era unpisciaturi… Che era un tossico, che era un drogato, che non serviva a niente, che era uno spacciatore da due soldi».
QUESTIONE DI EFFICIENZA Radicalmente contrario all’assunzione di droga, più volte ha intimato tanto a De Rosa come a Sonsogno di smettere. E di certo non per affetto. Era una questione di «efficienza». «Enzo – racconta il collaboratore – mi diceva: “tu sei un bravo ragazzo, non ti dico,.. in base,.. al di là di quello che tu fai o non fai con Mimmo” (..), però se ti posso dire una cosa, non fare … non gli calare la testa a fare uso di cocaina, perché la cocaina ti brucia il cervello, poi non ragioni più, perdi quelle che sono le cose. Dimmi di andare a prendere … di ritirare un tir di cocaina, ma non mi dire di farci manco un grammo di cocaina. Questo è stato… e questo mi è rimasto impresso». Parole, gesti e atteggiamenti che segnavano – spiega il collaboratore – in maniera evidente la differenza con Sonsogno che per sangue e parentele – è cugino di Carmelo Murina e dei Fracapane, personaggi di rilievo del clan De Stefano- Tegano – più di Zappia avrebbe potuto aspirare a ruoli di massimo livello. Eppure – afferma De Rosa – « Mimmo era la persona delegata da Vincenzino Zappia».
“IO L’HO FATTO, IO LO DISTRUGGO” Una condizione di subalternità che l’uomo di Peppe De Stefano a Reggio non esitava a ribadire con frasi che nel mondo delle ‘ndrine lasciano poco spazio all’interpretazione. «Simbolica – chiarisce il pentito – è stata per me una frase che Enzo Zappia mi ha detto: ” io l’ho fatto ed io lo distruggo”». Un’affermazione che affonda le radici nella storia personale di Mico Tattoo Sonsogno. «Quando Enzo dice che l’ha “fatto lui”, “io l’ho fatto ed io lo distruggo”- spiega paziente De Rosa – vuol dire che l’ha elevato da una mera posizione di spacciatore e rapinatore». A dividerli però era anche l’atteggiamento. Per Zappia, quello di Sonsogno era troppo “leggero”. Per De Rosa, «dice che si “mbrischiava” (dialettale: sì intrometteva) con tutti, si “mbrischiava” vuol dire tipo che si … che si frequentava».
“UN’INTELLIGENZA CRIMINALE MOSTRUOSA” Il pentito – racconta nel corso di diversi interrogatori al pm Musolino – non aveva con il delegato del capocrimine il rapporto simbiotico e ombelicale che si era strutturato con Sonsogno. Con Mico Tattoo, nel giro di poco era arrivato a dividere tutto – le attività criminali e le serate, lo shopping e le ricorrenze – ed era arrivato a conoscerne anche i segreti più intimi. Ma dal 2008 al 2012, De Rosa ha imparato a conoscere Zappia. E – in un certo senso – a rispettarlo e temerlo. «Io – dice al pm – I’ho studiato ad Enzo. .. perchè I’ho vissuto, Enzo è furbo- Nel senso che Mico ha delle capacità imprenditoriali più rischiose, perché si mescola con tutti, Enzo è più guardingo perchè ha un’intelligenza criminale mostruosa, perché lui, per dire … riesce ad avere una visione. .. che poi non si fida di nessuno, quindi tipo non e mai… è schiavo di se stesso, perchè lui deve essere sempre me sso là, si guarda da tutti».
TALPE AL SERVIZIO Ma l’atteggiamento schivo non gli ha impedito nel tempo di tessere contatti importanti, anche all’interno della macchina dello Stato. «Enzo – rivela De Rosa – per dire ha gli agganci buoni, quando è scattata l’operazione “Archi”, noi lo sapevamo che l’avrebbero arrestato e lui non c’era … e che comunque sia … per me, per quello che ho vissuto io, la famiglia De Stefano non ce n’è per nessuno… pure quando hanno arrestato a Checco, Glanni sapeva, e gliel’ha detto a Mico, che avrebbero arrestato a Checco Zindato». Alle proprie dipendenze, Zappia aveva dunque una serie di talpe, che più volte gli hanno permesso di conoscere in anticipo quando per lui o per altri sarebbero scattate le manette». Ma non solo. Presumibilmente proprio grazie all’investitura ricevuta dal capocrimine Giuseppe De Stefano, Zappia manteneva anche rapporti regolari con i Tegano.
CON I TEGANO C’E’ COESIONE A rivelarlo è sempre De Rosa, che senza indugio alcuno afferma che con i Tegano i rapporti erano «buoni, è sempre un personaggio … quelle cose che si leggono sono vere, dunque sia … che si interfacciano è vero (..) si interfacciano nel senso che comunque sia che … che è una sorta di coesione». Il resto del verbale è coperto da un lungo omissis, ma le parole oggetto di discovery sull’argomento sono estremamente significative. Contrariamente a ricostruzioni alternative che negli anni più di uno ha tentato di far filtrare nei processi, ancora una volta si conferma quella che è stata la pietra angolare delle indagini che hanno svelato gli assetti della ‘ndrangheta cittadina dal 2008 in poi. Superate le frizioni di quell’annus horribilis per il clan di Archi, Tegano e De Stefano – da tempo divenuti per sangue e affari un’unica cosa – hanno continuato a marciare uniti. Del resto, in ballo c’era – e c’è sempre stato – il dominio dell’intera città. E non solo.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it