«Bisogna sventrare Napoli!», esclama il ministro Depretis di fronte all’emergenza sanitaria di Napoli del 1884.
Matilde Serao gli risponde con un capolavoro di giornalismo: “Il ventre di Napoli”: «”Voi non lo conoscevate, on. Depretis, il ventre di Napoli. E avevate torto! Perché Voi siete il Governo!E il Governo deve sapere tutto! Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda, onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il Governo deve sapere l’altra parte, quella che nessuno conosce. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non la conosce il Governo, chi la deve conoscere, on. Depretis?»
Il “rimprovero” della Serao potrebbe essere recitato tale e quale per la Calabria: si dibatte da sempre, infatti, sulle strade giornalistiche da intraprendere per descrivere una regione in difficoltà: parlare del suo “ventre” o privilegiare le “descrizioncelle colorite”?
Ho citato la Serao in occasione del convegno che si è tenuto a Siderno su “La donna nella questione meridionale”, anche per ricordare 160 anni trascorsi dalla sua nascita (1856), perché la Serao è stata l’antesignana del giornalismo moderno (ha fondato Il Mattino e Il Giorno) e dell’emancipazione femminile, riuscendo ad imporsi in un mondo prevalentemente maschile, con la possibilità del premio Nobel, nel 1924, poi andato a Grazia Deledda, lanciata dalla stessa Serao, evidentemente boicottata per il suo antifascismo.
Penso che il grande coraggio della Serao e la sua indipendenza debbano essere proposte come esempio di emancipazione e di coerenza anche alle nuove generazioni. Una donna che ha vissuto la questione meridionale dall’interno, portandola alla luce e denunciandola.
Ma parlare della “donna nella questione meridionale” significa aggiungere anche altre problematiche all’interno di quelle già complicate che la donna vive nella “questione italiana”, ma, nello stesso tempo, ho potuto anche scorgere una luce in fondo al tunnel, col dubbio che potesse essere non la luce della soluzione, ma le luci di un treno meridionale che ti viene incontro. È vero che i treni meridionali, quelli che sono rimasti, non vanno molto veloci, ma è pur sempre un treno di problemi non risolti e ancora non semplici d’affrontare, quando però c’è la volontà di volerli affrontare.
E allora, mentre percorrevo il tunnel della questione meridionale al femminile, mi è venuta in mente la possibilità di cercare una soluzione ricorrendo all’immaginazione, il racconto, la scrittura, la lettura dei libri di alcune scrittrici delle nuova generazione, vincitrici anche di premi e con tanti lettori, che hanno ripercorso il passato della loro infanzia, delle loro famiglie e dei luoghi dove hanno vissuto. Ho captato dai loro racconti la possibilità di trovare qualche soluzione alle tante problematiche poste dalla questione meridionale e delle sue donne: in questo modo ho potuto immaginare che il treno non stava entrando ma stava uscendo dal tunnel.Mi riferisco per esempio a scrittrici come Michela Murgia, che ha scritto “Accabadora”, a Mariolina Venezia, che ha scritto “Mille anni che sto qui”, alla giovane scrittrice calabrese Angela Bubba, che ha scritto “La Casa”, a Imma Divino che ha scritto “L’identità negata”, storie di donne ambientate nella Locride, tra il ‘700 e l’800, storie di grave disagio, che si sono certamente attenuate, ma ancora con tante zone d’ombra.
Storie di donne raccontate anche dagli scrittori calabresi Vito Teti e Gioacchino Criaco: il primo, con il libro “Il patriota e la maestra”, ha ricostruito la storia d’amore e ribellione, che si svolge durante le guerre risorgimentali, fra Antonio Garcea, calabrese, patriota rinchiuso nelle carceri borboniche e Giovanna Bertòla, piemontese, giovane maestra e fondatrice, nel 1865, del giornale “La Voce delle donne”, giornale di donne per “educare, istruire, consigliare, parlare di diritti e di doveri”
Bertòla pensa che l’istruzione femminile avrebbe clamorosamente smentito le teorie sull’inferiorità delle donne, discostandosi anche da quelle posizioni moderate che vedevano nella donna, anche quando istruita, soltanto la mamma e l’educatrice dei figli.
Scrive, infatti: «Se il sesso forte si spogliasse per un momento della propria personalità e si facesse a considerare la nostra causa senza passioni di sorta, ma con pacatezza e moderazione,si persuaderebbe alfine che la nostra è la causa di tutto il genere umano, e che l’equilibrio dei diritti civili, morali ed intellettuali tra l’uomo e la donna, starebbe negli interessi più vitali della società».
E non è un caso, dunque, se Gioacchino Criaco, uscito dal tunnel della trilogia nera dei suoi tre primi romanzi, con il suo ultimo, “Il saltozoppo”, affidi alle donne il cambiamento del destino della Calabria, perché il loro racconto è il principale antidoto, se non l’unico, in grado di cambiare le storie degli uomini, per fare in modo che le donne calabresi e, dunque, la Calabria, possano camminare con due gambe e non più una gamba, che è solo un gioco, arrivando un giorno a fare anche a meno della stampella di sostegno esterna.
E le giovani scrittrici meridionali che ho prima citato, neanche trentenni, hanno sentito la necessità di realizzare delle opere su situazioni e personaggi del loro passato prossimo, rievocando fatti e sensazioni e stati d’animo della nostra fanciullezza, dove scopriamo la tematica dell’adozione e dell’eutanasia nell’Accabadora, e l’impazienza delle novità di nonna Candida, scandita con una frase che darà il titolo al libro di Mariolina Venezia: «Mi pare mille anni che sto qui», un modo di dire comune anche a noi calabresi, da non intendere però come il senso di una rassegnazione, ma come l’impazienza e la necessità di sentire e vedere cose nuove in un futuro possibile.
Storie di donne scritte da donne che forse ci suggeriscono la possibilità di azzerare la questione meridionale per come intesa finora per riavviarla con nuove metodologie e un richiamo al passato come autocoscienza che non sia però conflittuale con il resto d’Italia, ma inclusivo.
È l’idea femminile di una nuova questione meridionale che è stata anche teorizzata da alcuni studiosi meridionali come Pietro Bevilacqua, Mario Alcaro, Marta Petrusewicz con l’Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali, per i quali la questione meridionale andava superata e smontata per come era stata rappresentata, affinché venisse rivalutata la grande tradizione culturale del Mediterraneo, come ha scritto il professor Mario Alcaro, al fine di mettere in luce la parzialità di tutta una tradizione di studi precedenti che hanno sempre fatto del Mezzogiorno una sorta di terra del pianto.
Purtroppo questi studi non hanno prodotto i risultati sperati in quanto la politica meridionale non è stata in grado di recepirli per rivalutare l’autonomia culturale e la capacità progettuale delle intelligenza meridionale, preferendo invece il piccolo cabotaggio partitico per esclusivi interessi personali.
Ma, nello stesso tempo, neanche gli intellettuali e gli studiosi meridionali sono stati – e non lo sono ancora – in grado di recepire i di/segni proposti dai nuovi studi meridionalistici, anche loro spesso e volentieri alle prese con scelte politico-partitiche che ne hanno minato l’indipendenza, con le dovute eccezioni, naturalmente, che da noi si chiamano Gioacchino Criaco, Vito Teti e Mimmo Gangemi, tra quelli che più noti a livello nazionale e che si mettono più spesso in gioco allo scoperto. Ovviamente ce ne sono tanti altri meno noti che già danno il loro contributo o pronti a darlo. Ma quanto hanno inciso
o incidono sulla realtà al fine di un cambiamento socio-culturale? Purtroppo, a mio avviso, poco, perché, altrimenti, non si capisce, per esempio, perché stiamo accettando una Regione Calabria senza l’assessorato alla cultura, ai beni culturali e senza una Film commission degna di questo nome, come in tutte le altre città e regioni italiane, a cominciare dalle vicine Basilicata e Puglia. E poi: esiste oggi anche una nuova Matilde Serao calabrese?
Probabilmente sì, ma non ne sono sicura. Sicuramente, però, esiste un mondo di fatto invisibile – come scrive Mimmo Nasone – composto da donne di tutte le età con uno o più figli minori – circa 30.000 nella sola Calabria – che chiedono ascolto, attenzione, una casa, un lavoro, un sostegno, non ricevendo quasi mai risposte.
La Locride è oggi alle prese in misura crescente con lo spopolamento diffuso, soprattutto nelle zone più interne; l’invecchiamento della popolazione che in alcuni comuni ha già raggiunto il punto di “non ritorno demografico” e in altri lo sta per raggiungere.
Eppure le donne della Locride portano con se le magie e gli echi di una storia millenaria. Sono donne antiche e moderne nello stesso tempo.
Hanno affrontato le asprezze e le solitudini della vita, eppure sono state e sono sempre presenti, e oggi, forti di queste esperienze, possono rappresentare il presente e il futuro della Locride nel momento in cui, però, riescono ad appropriarsi anche di un ruolo politico, non si più subalterno o svolto sulla scia della gestione della politica e del potere degli uomini
Le donne hanno affrontato l’emigrazione dei propri mariti e fratelli con grande dignità, continuando a credere fermamente che le cose sarebbero cambiate, indirizzando i figli allo studio anche con grandi sacrifici. Donne che hanno portato il peso della solitudine e dell’educazione dei figli, la cura egli anziani, la gestione delle rimesse dei propri mariti, soprattutto per costruire una nuova casa, anche per i figli. Quindi abbiamo assistito dagli anni 60 agli anni 80 a uno sviluppo disordinato dell’edilizia abitativa, la cui responsabilità va assegnata soprattutto alla politica-partitica che non ha controllato lo sviluppo urbanistico, magari in cambio di voti.
Insomma la volontà e la forza delle donne di tutti i paesi calabresi soggetti alla grande emigrazione, sono state d’esempio per figli e nipoti per affrontare con coraggio il corso della vita. Certo la loro forza non è bastata, perché comunque la politica a forte conduzione maschile non è stata sinergica con i sacrifici delle donne, favorendo un assistenzialismo che, purtroppo, non ha posto le basi per un vero sviluppo delle Locride. E la nostra responsabilità è quella di aver condiviso questo atteggiamento politico che non ha sostanzialmente portato a nulla se è vero come è vero che siamo ancora gli ultimi fra gli ultimi.
Da quello che possiamo percepire nella Locride non sembrano rosee ma, se non ci fermiamo all’apparenza, le condizioni per uscire dalla crisi ci sono, perché ci sono già delle realtà socio-economiche che stanno dimostrando che “cangiari” si può, ma la conquista di una libertà socio-economica non basta se non si persegue una parallela libertà d’azione prettamente Politica.
E l’esempio viene dal nord d’Italia dove, pur vivendo la donna una migliore condizione socio-economica, le problematiche femminili non sono diverse da quelle della maggior parte d’Italia. E volendo guardare più in alto, basta dire che in Italia non abbiamo ancora avuto un Presidente della Repubblica e/o del Consiglio donna.
Quindi, senza una conquista di libertà di azione politica, il futuro delle donne sarà sempre difficile e complicato.
Certo abbiamo fatto grandi passi in avanti con le quote. Già i consigli comunali registrano il 40% della presenza femminile e una pari percentuale sarà assegnata nelle prossime elezioni regionali (12 donne su 30 consiglieri). Ma potremmo anche chiederci: perché il 40% e non il 50%? Perché dobbiamo ancora accettare il 10% di “inferiorità”?
Quali sono le prospettive
Sempre per parlare con dati alla mano, la maggioranza delle donne occupate oggi è nel commercio, con buste paghe dimezzate rispetto al numero di ore effettuate.
E volendo volgere lo sguardo oltre la situazione locale e dei confini regionali, parlando di donne e lavoro, c’è una situazione, in Calabria e soprattutto in Puglia (Nardò) e Sicilia( Ragusa) in cui il lavoro femminile è sfruttato a 2,5 euro all’ora dal punto di vista economico, in condizioni sicuramente peggiori di quelli che ho descritto poco fa. Nella sola Puglia sono 40.000 le nuove schiave secondo una inchiesta di Repubblica: e sono italiane perché più affidabili, ma soprattutto più ricattabili e più facili da piegare alla volontà dei caporali: per questo chi controlla il mercato del lavoro agricolo preferisce le connazionali. Addirittura, secondo le dichiarazioni di queste lavoratrici, i caporali preferiscono le italiana «perché gli stranieri, in questi ultimi tempi, tendono sempre a ribellarsi un po’. Noi, no». Siamo purtroppo a questi livelli di sfruttamento femminile silenzioso di cui sembra che la politica non si voglia occupare, lasciando ai sindacati il compito di farlo; ma non basta.
E il peso delle crisi continua ad alimentare il disagio sociale, soprattutto fra le donne: il tasso di disoccupazione, dal 2011 al 2013, è cresciuto del 23%, il che significa 60mila donne calabresi in cerca di lavoro, quindi 26 mila disoccupati in più rispetto al 2011. E dal 2013 ad oggi la c’è stato un piccolo aumento occupazionale grazie all’agricoltura, così come sta avvenendo in tutta Italia.
Questa è la situazione lavorativa, nel 2016, per migliaia di donne di un meridione che si vede costretto a dibattere tematiche “alte” con forme politiche “basse”, interne ed esterne. In questo contesto occorre fare scelte più decise verso una soggettività moderna che punti con forza ad una compiutezza identitaria Politica non più affidata alle “quote rosa” e/o alla festa dell’8 marzo, alla necessità e alla capacità delle donne di diventare soggetti costruttivi della Politica, non più oggetti.
*direzione nazionale del Pd
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