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Contrada Acquaviola, vita e morte all'ombra di una raffineria

REGGIO CALABRIA Quattro barche bianche occupano la scena. A separarle, in maniera asimmetrica, tre grandi cilindri di altezze diverse in cui i colori bianco e rosso si alternano. Le barche, riprodott…

Pubblicato il: 20/03/2016 – 13:25
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Contrada Acquaviola, vita e morte all'ombra di una raffineria

REGGIO CALABRIA Quattro barche bianche occupano la scena. A separarle, in maniera asimmetrica, tre grandi cilindri di altezze diverse in cui i colori bianco e rosso si alternano. Le barche, riprodotte secondo la tecnica dell’origami, poggiano su alcune strutture di legno. L’attore siede su un piccolo sgabello sistemato tra le poltrone della prima fila del teatro e lì rimane anche durante l’ingresso in sala. Nel foyer le luci sono accese e la gente, in attesa di prendere posto, parla tra sé, mentre i primi spettatori attendono l’inizio della rappresentazione. Poi, d’un tratto, la musica s’interrompe, le luci si spengono e “Contrada Acquaviola n.1” inizia. In scena – ieri sera al “Teatro Primo” di Villa San Giovanni e oggi pomeriggio in replica – ci sono Antonio Alveario e Simone Corso (che è anche autore del testo), con la regia di Roberto Bonaventura e prodotto da Nutrimenti Terrestri. Luci in penombra; un temporale e urla dal fondo della scena sono l’inizio di questa drammaturgia, che racconta la vita di una famiglia nata e cresciuta in “Contrada Acquaviola”, strada che collega Milazzo alla vicina raffineria. Lo sfondo della storia si mette al servizio del teatro d’inchiesta, che vuole mostrare le storie (seppur fittizie nel testo), di chi ha pagato – troppo spesso con la vita – i nefasti effetti dell’impianto. Nel prologo, un uomo con cappello di lana in testa e vestito da capitano, intima ordini a un fittizio equipaggio. Un attimo dopo, l’attore dalla platea irrompe sulla scena impugnando la piccola sedia e spezza l’azione: «Papà, ma che minchia fai?». Si distrugge l’idea di partenza per scoprire che ci si trova in una casa e quel veliero – che occupa tutto lo spazio scenico – non è che una semplice riproduzione in miniatura dell’Amerigo Vespucci (creata da Nunzio Laganà). La discussione che nasce tra il padre Carmelo (Antonio Alveario) e il figlio Paolo (Simone Corso), riguarda le imminenti nozze di quest’ultimo. Paolo è preoccupato per la scarsa alimentazione del padre e per l’insonnia causata dalla maniacale ossessione di Carmelo di distruggere, durante la notte, il proprio veliero; almeno finché l’albero maestro non svetti alla perfezione verso il cielo. Ma quello che in apparenza sembra essere la semplice vita di un uomo e di suo figlio, lascia spazio a una drammaturgia che si svela a piccole dose e che soppianta l’apparente “banalità” iniziale; a partire da una luce a intermittenza rossa che accompagna il suono di una sirena che blocca l’azione più volte. Il punto di svolta arriva con una scusa ordinaria: lo svenimento della mamma di Caterina, la fidanzata di Paolo, durante una semplice passeggiata. Negli ingressi in scena dell’attore ulteriori elementi narrativi verranno forniti per ricomporre la diegesi: alla donna è stato diagnosticato un tumore all’utero, stessa malattia che dieci anni prima aveva ucciso la madre di Paolo. Si scopre così, che l’incidenza di malati e morti a causa del cancro è in aumento rispetto al passato; che ci sono contrade che prendono il nome di «Contrada delle parrucche» per il numero di gente che perde i capelli a causa della chemioterapia e che la luce rossa e la sirena sono quelli dalla raffineria di Milazzo, poco distante dalla casa dei due uomini. Si assiste, nel litigio tra i due, a uno scontro generazionale. Carmelo incarna il pensiero degli anziani; di chi vede (e vide) nell’impianto la “possibilità”. «Ci ha dato da campare trent’anni», ripete. Il figlio ne vede solo l’ecomostro e «la puzza di tutto quel fumo nero che riempie l’aria» e la causa certa della morte della madre. La cecità Carmelo sulla defunta moglie, trova soluzione nella frase «sono mali che vengono», per respingere una più che deducibile concausa. Ma la “claustrofobia” di quest’uomo è già spiegata in principio, quando rimarca la volontà di isolarsi dal mondo. Un ceffone porta Paolo ad abbandonare la casa e il padre alla propria solitudine. Carmelo osserva il veliero i cui cilindri rimandano alle ciminiere della raffineria, sia nel colore che nella forma. Riprende la stabilità dell’albero maestro; lo smonta nelle sue parti. Appassisce la bellezza degli origami, mentre la luce si fa fioca e nella sala del teatro le voci registrate dei manifestanti – dopo l’esplosione che ha coinvolto la raffineria di Milazzo nel 2014 – ne chiedono la chiusura immediata. Nel buio, l’applauso del pubblico, decreta la fine dello spettacolo.

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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