REGGIO CALABRIA Per tutta la vita ha legato il suo nome alla “Stocco&Stocco”, impresa di commercializzazione dello stoccafisso finita anche sulle magliette della Reggina calcio. Ma per i magistrati della Dda, Francesco D’Agostino – vicepresidente del consiglio regionale in quota “Oliverio presidente” – è sempre stato solo un prestanome, per questo è formalmente indagato per intestazione fittizia aggravata dall’aver favorito la ‘ndrangheta.
Il re dello stocco, che attorno alla tipica pietanza di Cittanova ha anche creato una festa cittadina, divenuta punto di riferimento per tutto il comprensorio, sarebbe solo una testa di legno. Quell’azienda risponderebbe infatti solo ai Raso-Gullace, Francesco e lo zio Mommo, e al loro imprenditore di riferimento Jimmy Giovinazzo. Una tesi che non ha convinto il gip Bennato, ma che per i magistrati si fonda su elementi concreti.
A indicarla come cosa dei Raso-Gullace è stata infatti in passato Teresa Ostarteg, ex moglie di Vincenzo Mamone, parente degli uomini del clan. Proprio nel corso di chiacchierate di famiglia, la donna avrebbe appreso che l’azienda era in realtà di proprietà di Francesco Gullace, fratello di quel Ninetto Gullace che gli inquirenti considerano punto di riferimento della ‘ndrangheta in Liguria. Ma che i Raso avessero a che fare con la “Stocco&Stocco”, i pm lo hanno desunto – è la loro tesi – anche dalle conversazioni delle sorelle Luciana e Mimma Politi, sorprese a parlare del necessario allontanamento di Jimmy Giovinazzo dalla Calabria, in seguito ai controlli della Guardia di Finanza e ai problemi giudiziari che ne erano seguiti.
Una decisione di Carmelo Gullace, secondo le due, necessaria per far «stare più tranquillo quello dello Stocco». Rilevanti per gli inquirenti sono inoltre le telefonate che Antonio Scullari, cugino di D’Agostino, ha più volte fatto a Giovinazzo, dall’utenza dell’impresa, come il fatto che Mommo Raso si potesse rifornire gratuitamente di stoccafisso in uno dei negozi di D’Agostino. Una circostanza che si è verificata più volte, ma per il gip – al pari degli altri elementi portati alla sua attenzione dagli inquirenti – non è da leggere per come prospettato dalla Dda. «L’assunto accusatorio – spiega infatti il gip Benato – non è condivisibile, essendo dalle indagini emersa una immanente accessibilità all’azienda da parte degli indagati, leggibile piuttosto attraverso la contestualizzazione dell’attività aziendale esercitata in territori nei quali, nulla si muove ed alcuna iniziativa si intraprende senza il controllo delle cosche ivi imperanti che, anche nel corso della gestione delle imprese, non lesinano di atteggiarsi a “padroni” della stessa, le cui prestazioni e partecipazione sono gratuitamente dovute, in forza di un genetico compromesso».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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