LAMEZIA TERME Esisteva un «rapporto» tra Girolamo Raso, uno degli uomini di punta della cosca Raso-Gullace-Albanese nel Lazio, e Giuseppe Galati, deputato del Pdl (oggi vicino alle posizioni di Loris Verdini). Il tramite tra due mondi apparentemente così lontani è Antonio Stefano Caridi. È un Caridi diverso dal politico affermato che siede a Palazzo Madamo. Al tempo dei fatti descritti nell’ordinanza “Alchemia” (siamo nel 2010) il politico reggino era un semplice assessore comunale a Palazzo San Giorgio: l’inizio di un’ascesa inarrestabile, che la Dda di Reggio Calabria lega alle mire della masso-‘ndrangheta dello Stresso.
Caridi e Galati, anche loro in quel momento mondi distanti (se non altro per il rispettivo peso politico), si conoscono. È l’assessore a proporsi come mediatore tra gli uomini del clan e il deputato «per fare ottenere ai primi lo sblocco dei lavori edili afferenti a un immobile di proprietà, sito nella periferia sud di Roma». L’immobile si trova nel Parco naturale “Decima Malafede” (e il nome pare quasi un’evocazione), in zona vincolata. Se conosci un parlamentare, però, non c’è vincolo che non possa saltare. Di più: la cosca ha delle mire su «alcuni lavori pubblici per il trasporto e smaltimento dei rifìuti nel Comune di Roma» e Galati può tornare utile anche in quell’ambito. In cambio dei suoi favori, all’uomo del Pdl, viene promessa la cessione di un terreno. Un “premio” che, per i pm, è un caso scolastico di corruzione. Per il gip, però, gli elementi a carico del deputato lametino non sono sufficienti a giustificare una misura cautelare.
Gli incontri imbarazzanti tra Caridi, Galati e Jimmy Giovinazzo sono almeno due (a Reggio Calabria: il 22 settembre e il 13 ottobre 2009), ma il Tribunale non ritiene dimostrata né l’intercessione del parlamentare per la ripresa dei lavori nell’area vincolata, né quella per l’ottenimento degli appalti. Il motivo degli incontri, però, era «ragionevolmente» l’esigenza «di ottenere lo sblocco dei lavori edili intrapresi dalla cosca in una zona vincolata». E il loro ripetersi era causato «dalle difficoltà, incontrate dai singoli esponenti, nella sollecita e tempestiva consegna ai referenti politici» dei documenti necessari.
Il «problema della casa che non viene liberata» ricorre spesso nei colloqui finiti agli atti dell’inchiesta. La cosca, a un certo punto prova a contattare «un amico loro, da poco insediatosi con il governo Berlusconi». Si tratta di Caridi, che si offre come facilitatore per arrivare a Galati. In effetti uno degli incontri programmati tra Girolamo Giovinazzo, Caridi e l’onorevole si svolge, secondo gli inquirenti, il 21 settembre 2009 nello studio dell’allora assessore.
Ma le mire politico-affaristiche del clan sono altissime. Le «manovre corruttive in atto nei confronti dei politici» servivano per creare una holding che potesse entrare negli appalti pubblici. Con un lessico che ricorda quello di “Romanzo criminale” e precede addirittura “Mafia capitale”, gli affiliati esultano: «si fa tutto insieme e con questi qua se la mangiano Roma… questi qua sono troppo…». La frase è inquietante, ma resta senza riscontri.
È proprio la mancanza di riscontri a “salvare” Galati, ma il gip non ha parole dolci per lui. Spiega che «le risultanze investigative danno conto di un coinvolgimento eticamente riprovevole». Fortuna per il politico lametina che non ci sia prova sia «della proficuità dell’intervento richiesto, sia della ricezione o anche solo dell’accettazione da parte dell’onorevole, della promessa di dazione gratuita di un immobile di proprietà di Rocco Politi». Rimane l’ombra di una tentata corruzione. E quella di un atteggiamento non proprio cristallino da parte dell’ex sottosegretario.
Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it
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