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L'imbarazzante caso del cranio e del Museo. Un appello ai giudici di Catanzaro

di Luca Addante*

Pubblicato il: 10/09/2016 – 22:16
L'imbarazzante caso del cranio e del Museo. Un appello ai giudici di Catanzaro

Tra pochi giorni la Corte d’Appello di Catanzaro deciderà il destino del cranio del cosiddetto «brigante» calabrese Giuseppe Villella, assurto agli onori delle cronache nazionali qualche anno fa. Di fatto, la sentenza avrà impatto anche sui destini di un Museo. La questione, pertanto, può apparire un fatto localistico sconfinante nel folklore, ma implica conseguenze che trasfigurano la microstoria in vicenda simbolica dell’antropologia di una nazione (o meglio, di una parte d’essa). Di fronte a ciò, da storico di professione e da calabrese innamorato della sua terra, costretto da lustri a emigrare (a Roma, Parigi, Venezia, Torino) per poter svolgere il proprio lavoro universitario e continuare a studiare anche la sua terra, ritengo mio dovere morale rivolgere, con grande rispetto, un accorato appello ai signori giudici.
Prima, però, è necessario ricostruire i fatti. Tutto iniziò con un articolo uscito sulla «Stampa» nel 2009, che informava dell’apertura di un polo museale dell’Università di Torino, fondato sugli eccezionali fondi lasciati all’ateneo da alcuni suoi vecchi professori. Tra questi, il fondatore dell’Antropologia criminale: Cesare Lombroso (1835-1909), celebre da tempo per le sue fallaci teorie sui caratteri biologici, nativi, della delinquenza. Proprio esaminando il cranio di Villella − quello oggetto di lite giudiziale −, nel 1870 Lombroso individuò quella che gli parve un’anomalia, una fossetta nella parte posteriore della testa, inferendone la scoperta (grossolanamente erronea) della delinquenza quale carattere biologico.
L’evoluzione del pensiero scientifico demolì il tentativo lombrosiano; ma pur avanzando ipotesi sbagliate − che nessuno oggi si sogna di avallare −, nella sua impressionante attività di ricerca Lombroso accumulò una quantità enorme di reperti. Fonti che sono ancora oggi (anzi: oggi più di ieri, trattandosi di materiale rarissimo d’un paio di secoli fa) d’oggettiva e inestimabile importanza dal punto di vista storico-scientifico. Soprattutto perché concentrati in un unico luogo (si badi che si tratta di migliaia e migliaia di pezzi), ben conservati e classificati, con grandissimo vantaggio per i ricercatori. Ho potuto visionare − grazie alla cortesia del direttore del Museo − non solo la collezione esposta ma, più analiticamente, tutto il fondo; e posso assicurare che si tratta di un autentico tesoro per storici, sociologi, storici dell’arte, psicologi, antropologi del futuro che vorranno studiare le classi subalterne. Soggetti storici sui quali lo studio è sempre ostico, per la mancanza endemica di fonti. Il che rende, appunto, la collezione di un impareggiabile valore storico-scientifico.
Fra le chicche del fondo (già al tempo di Lombroso allestito in Museo, e poi arricchito ulteriormente), ci sono decine di migliaia di foto (con annesse schedature): di criminali, prostitute, folli e altri «devianti» (o presunti tali) internati nei manicomi e nelle carceri dei quattro angoli del mondo. E poi: un centinaio di straordinarie fotografie di criminali tatuati, nelle più varie fogge (con scritte e/o immagini); affiancate da alcuni splendidi pannelli disegnati tratti dalle foto stesse, in cui Lombroso spiegava le astruse simbologie di quei tatuaggi, diffusissimi tra i malandrini dei suoi tempi. Ci sono, ancora, decine di corpi di reato: usati per uccidere, truffare, falsificare, rapinare… Pugnali simulati in crocifissi, mascherine, funi, marchingegni per scassinatori, addirittura due roulettes di bische clandestine ottocentesche. Senza dimenticare quella che Lombroso definì arte criminale: manufatti in legno o altri materiali, opera di detenuti in manicomio o in carcere, con alcuni autentici capolavori. Ancora: ci sono decine di orci da cui bevevano i detenuti torinesi ottocenteschi, ricchi d’immagini e di scritte che ci restituiscono frammenti della vita, degli altresì inattingibili pensieri di quei poveracci. E poi: alcune inquietanti (ma notevoli per fattura) maschere mortuarie di vari tipi di malviventi. Né manca, ça va sans dire, qualche centinaio di teschi, dato il tentativo lombrosiano di inferire il crimine dall’anatomia. Tra i crani c’è quello di Villella; ma il grosso dei teschi è di provenienza piemontese − come ovvio, data la residenza torinese di Lombroso −, mentre è del tutto falso che vi siano conservati a centinaia i resti di briganti meridionali o presunti tali, come ho potuto personalmente constatare. Da segnalare, infine, tre straordinari abiti: d’un noto folle piemontese, d’un famoso brigante laziale e d’un celebre truffatore americano, che imperversò nell’Italia degli anni ’20 spacciandosi per il capo indiano Cervo bianco: abiti esposti di recente a New York, con strepitoso successo di pubblico e di critica.
Questo patrimonio di fonti, però, era finito in alcuni magazzini dell’ateneo torinese, dimenticato per decenni. Fino a quando l’impegno del professor Umberto Levra e di altri docenti dell’Università non ha permesso di avviare il recupero dello straordinario fondo, sottraendolo a sorci, polvere, umidità e altri agenti distruttivi dei documenti della storia umana. In seguito, un brillante allievo di Levra, il professor Silvano Montaldo, ha portato avanti l’opera del maestro, e oggi dirige un piccolo ma originalissimo Museo, che ha arricchito l’offerta museale di Torino, dove possono visitarsi grandi strutture come l’Egizio ma anche piccoli gioielli come, appunto, il Museo di Antropologia criminale. Un esempio di come le città possano presentarsi al turismo internazionale, secondo la linea di grandi capitali culturali come Parigi, Londra, New York, Berlino…
Bene, nel momento in cui il surricordato articolo della «Stampa» informava della riapertura del Museo, indicava tra i reperti anche il cranio di Villella. Da qui s’attivò un cortocircuito allucinante, con interventi che ancora oggi brillano per toni che alternano l’assalto all’arma bianca al rutto libero. Ma procediamo nella ricostruzione. Curiosamente, a Torino vivono un paio di neo-borbonici e, letto l’articolo della «Stampa», i nostalgici sabaudi della monarchia delle Due Sicilie ne diedero notizia al presidente d’uno dei movimenti neo-borbonici di Napoli. Il quale prese a sua volta la cornetta, telefonando al sindaco del paese originario di Villella (morto in carcere a Pavia ma nato e vissuto a Motta Santa Lucia), informandolo che quei cattivoni di piemontesi stavano per mettere alla gogna un “martire” della “colonizzazione” savoiarda del nostro amato Sud.
Sia chiaro: non voglio entrare qui nell’anti-storica polemica pro-Borbone e anti-Savoia, essendo peraltro repubblicano; come dovrebbe essere ogni cittadino italiano se non vuol violare la Costituzione. Nell’art. 139 essa sancisce che l’unica cosa che non si può riformare della Costituzione stessa è la forma repubblicana. Conseguentemente, per tornare a una monarchia come quella dei Borbone ci vorrebbe un colpo di Stato. Mi preme, invece, restare sulla nascita dell’affaire Villella. Ricevuta la telefonata neo-borbonica, il povero sindaco di Motta Santa Lucia cadde dalle nuvole. Il brigante Villella: chi era costui? Non solo il sindaco, ma tutto il paese ne ignorava completamente l’esistenza. Alla faccia dell’eroe del brigantaggio vittima dei crudeli battaglioni dei Savoia! Come si vedrà, tale oblio non è casuale, avendo delle precise motivazioni storiche. Per il momento, però, restiamo alla cronologia dei fatti.
Ignaro di chi e di cosa si parlasse, il povero sindaco di Motta Santa Lucia si tuffò a pesce nell’affare, credendo in buona fede di difendere l’onore del proprio paese. A tal punto si lanciò, da adire l’autorità giudiziaria per richiedere la restituzione del cranio di Villella. Si dirà: ma perché un amministratore pubblico s’è tanto esposto senza sapere di chi e di cosa si trattasse? Semplice: sulla base delle balle spaziali raccontategli su tutta la vicenda, ciotie che si sono diffuse ad abundantiam grazie al veicolo di Internet. A partire dalla grandguignolesca decapitazione e autopsia del poveraccio, operata da un Lombroso armato di mannaia sanguinolenta; mentre è dimostrato storicamente che Lombroso “scoprì” il cranio di Villella qualche anno dopo la sua morte, e che egli non partecipò all’autopsia, né mai lo vide vivo (come si legge spesso on-line).
Queste e altre invenzioni condivano la polpa della storia, ma il motivo per cui il sindaco ingroppava, lancia in resta, il suo destriero, era il presunto «eroe» Villella. Sul quale iniziarono a prender forma sulla rete racconti favolistici, atti a supplire l’ignoranza della storia e il totale vuoto di memoria. Ecco, allora, diffondersi romanzesche biografie del brigante che alimentavano, dal nulla, una polemica che diveniva apocalittica; non senza scialo di ridondanti (e fuori luogo) citazioni dalla Bibbia, dalla tragedia greca e dal Corano. Sulle pagine di Facebook − principale medium di tutta la faccenda − Villella era tratteggiato (cito) come un «brigante» che «si è da sempre battuto per il bene della sua gente». Che aveva preso «parte con orgoglio e determinazione al movimento di resistenza contro l’annessione, i soprusi, i saccheggiamenti e la distruzione del Sud a opera dei Savoia». Che «per diversi anni» si era «battuto in favore delle popolazioni meridionali», partecipando «alla resistenza contro i Savoia».
Queste ricostruzioni alate non citavano mai uno studio storico, un documento o altra fonte che garantisse un minimo sindacale di veridicità. E ciò per il semplice fatto che le fonti erano ignote, mentre è stato dimostrato che dietro quelle rumanzelle c’era, appunto, un romanzo. Un romanzo su Lombroso, in cui le invenzioni più truculente hanno impressionato lettori che, ingenuamente, digiuni di storiografia, le hanno ritenute verità storiche acclarate. Nel silenzio della storia, e grazie al chiacchiericcio sulla rete, queste minchiate (con licenza parlando) sono divenute virali, al punto che perfino una delegazione parlamentare s’è recata a visitare quello che è stato presentato − del tutto a sproposito − come un Museo degli orrori e un monumento al razzismo anti-meridionale. Un Museo che nessuno dei suoi detrattori ha visitato, salvo la suddetta delegazione. Guidata dall’onorevole Scilipoti. «E ho detto tutto!», avrebbe commentato il grandissimo Totò.
Nel frattempo, nella vicenda è emerso un altro protagonista, che ha costituito un comitato che ambisce a cancellare il nome di Lombroso dalla faccia della Terra. Tanto per dire, sulla pagina Facebook del comitato stesso, ancora il 14 agosto 2016, egli ha annotato con rara chiarezza: «Le mura del Museo Cesare Lombroso si sgretoleranno a breve». Si tratta di un ingegnere nativo di Casalnuovo Monterotaro (FG) ma residente a Milano: ed è davvero curioso sentire parlare in difesa del Sud questo signore che ha cancellato ogni traccia d’accento meridionale, assumendo una forte inflessione meneghina e una capacità retorica degna di un Berlusconi d’antan. L’ingegnere è divenuto l’anima del movimento pro-Villella, affiancandosi in giudizio all’iniziativa del sindaco di Motta Santa Lucia. Così, è partita la lite giudiziale tra il Comune (con l’intervento del comitato) e l’Università di Torino, tesa a ottenere la restituzione del famigerato cranio.
Ora, sarà permesso a un professore di Storia, che però è laureato pure in Legge, di fare qualche notazione giuridica; poiché a me pare che già uno studente di Giurisprudenza sappia che non sono i magistrati ad avere competenza sui Musei (salvo casi tipo il furto o la ricettazione). Le scelte dei Musei necessitano di complesse competenze specialistiche, che nessun magistrato è tenuto ad avere, se non per lodevoli interessi personali. Competenze tecniche che invece hanno gli storici, gli archeologi, gli storici dell’arte, gli antropologi, gli architetti, gli scienziati, i museologi, chi lavora per le Sovrintendenze o il Ministero dei Beni culturali… E si tenga bene a mente che, della questione, è stato investito l’autorevolissimo International Council of Museums (ICOM), sia nella sua sezione italiana sia in quella internazionale, che ha sede a Parigi presso l’Unesco. Ebbene, la prestigiosa organizzazione (essa sì legittimata a intervenire su questioni museali) ha prosciolto del tutto il Museo da ogni intento razzistico, rimarcando come «la dispersione di ogni suo pezzo» (dunque anche del cranio di Villella) «sarebbe la negazione di ogni etica museale».
Ragione, buon senso e diritto avrebbero suggerito, insomma, che il giudice investito della questione dichiarasse la propria incompetenza. Nondimeno, ragione buon senso e diritto in questa storiaccia paiono non avere avuto asilo. Così, un magistrato di Lamezia Terme ha dato ragione nel 2012 al Comune, emettendo un’ordinanza in cui ha disposto che l’Università restituisca il cranio, con un impianto che sul piano giuridico sconcerta. So che sono affermazioni gravi e non uso criticare la magistratura, per cui nutro profondissimo rispetto; ma basta leggere l’ordinanza, un documento ufficiale emanato da uno dei poteri supremi dello Stato, per capire che la gravità risiede altrove. Invece di decidere secondo diritto, infatti, il giudice si è messo a discettare di epistemologia e flussi turistici. Del resto, cosciente di compiere un’operazione border line sul piano del diritto, egli stesso s’è premurato nell’ordinanza di giustificare quello che ha definito, senza mezzi termini, un «sovvertimento delle regole ordinarie che governano la stesura della motivazione di un provvedimento decisorio»!
Le uniche norme addotte a sostegno della decisione sono una circolare del Ministero dell’Interno del 1883, secondo cui «sono a carico delle Università sia le spese di trasporto» sia le spese di «sepoltura dei cadaveri»; e un Decreto presidenziale del 1990, che prescrive che i cadaveri utilizzati nelle sale anatomiche vadano poi consegnati ai cimiteri. Bene, nel caso del cranio di Villella non si tratta di un cadavere destinato alle aule d’Anatomia, non si comprende, quindi, quale sia il senso giuridico dell’avere richiamato quella norma. Né la circolare del 1883 pertiene al diritto del Museo di trattenere il reperto o meno. Al posto di argomentare sulla base delle norme, il giudice stabilisce che il cranio non ha più interesse per gli studi né per la didattica, sostenendo addirittura che si tratta di «reperto scientificamente irrilevante». Inoltre, di fronte al corretto argomentare dei curatori del Museo, che hanno spiegato come la scienza si fondi, sempre, anche sugli errori, e che, dunque, quel reperto è decisivo per il fine dell’esposizione museale, il magistrato ha manifestato il suo dissenso, salendo in cattedra e discettando di filosofia della scienza, con un parallelo allucinante con l’errore giudiziario e il richiamo (irrispettoso e fuori luogo) al povero Enzo Tortora. Si dirà: ma «che ci azzeccano» Tortora e l’errore giudiziario (che può avere conseguenze sulla libertà o il patrimonio delle persone) con le logiche proprie della ricerca scientifica? Parrà incredibile, ma è proprio ciò che scrive il giudice, confondendo in modo surreale l’errore scientifico con l’errore giudiziario. Le mele con le pere.
Possibile che il giudice ignori che la logica stessa di ogni ricerca scientifica è, sempre, quella di procedere per tentativi, errori e correzione degli errori? Possibile che non sappia che grandissimi filosofi della scienza, come Karl Popper, hanno spiegato che, per essere scientifica, una teoria deve essere nella sua stessa formulazione «falsificabile»? Per millenni gli esseri umani pensarono che il Sole girasse intorno alla Terra. Poi in Europa iniziò la Rivoluzione scientifica (in cui tanto peso ebbero i nostri Telesio e Campanella), e Copernico teorizzò il contrario. Galileo dimostrò che Copernico aveva ragione: è la Terra che gira attorno al Sole. Copernico, però, sostenne pure che le orbite dei pianeti fossero circolari; e invece su questo si sbagliava, poiché esse sono ellittiche, come dimostrò Keplero. «È la scienza, bellezza!», verrebbe da dire parafrasando un vecchio film. E noi ovviamente continuiamo a studiare Copernico, anche se commise degli errori; e continuiamo a studiare pure gli astronomi che pensavano che la Terra fosse il centro dell’Universo, anche se prendevano un gigantesco abbaglio.
Del resto, i limiti dell’ordinanza non finiscono qui. Per esempio: il giudice ritiene che sia giusto che Motta Santa Lucia riabbia il cranio del suo presunto brigante poiché trattasi, scrive, di «uomo che nell’Italia pre-unitaria ha lottato per far trionfare la giustizia». Eppure, subito dopo condivide anche il diritto di Motta a non essere considerata «terra natale di briganti». Ma come? Prima dice che il Comune deve avere il reperto affermando che il brigante, in quanto tale, lottava per la giustizia; e poi sostiene che non è giusto che il Comune sia considerato terra di briganti? Una contraddizione totale. E non si accorge, peraltro, il giudice, che dichiarando che il presunto brigante «ha lottato per far trionfare la giustizia» egli rischia di apparire quanto meno irriguardoso verso lo Stato per cui esercita altissime funzioni? Si deve pensare che egli non sia favorevole all’assetto unitario e repubblicano dell’Italia? Che voglia il ritorno dei Borbone per cui combattevano i briganti, disattendendo l’art. 139 della Costituzione?
Sono i rischi del mischiare a sproposito la Storia (meglio: la pseudo-storia, come la chiamava Croce) col Diritto. D’altra parte, il giudice ha giustificato la sua decisione persino sulla base delle politiche turistiche. Difatti, scrive nell’ordinanza che, riottenendo il cranio, «il Comune ricorrente potrebbe divenire meta di turisti e curiosi che vogliono vedere i resti ossei e/o la tomba» di Villella; e siccome il Comune ha tra i suoi fini statutari quello di promuovere «lo sviluppo ed il progresso civile, sociale ed economico della comunità di Motta Santa Lucia», ciò legittimerebbe giuridicamente il Comune stesso a intervenire nel procedimento! Ora, trattandosi di una decisione giudiziale e non di chiacchiere da bar, ci rendiamo conto di cosa significhi riconoscere al ricorrente legittimità ad agire in giudizio sulla base del fatto che i turisti andranno a Motta Santa Lucia? Ma dove viviamo? C’è da spaventarsi. Chi mi garantisce che per quest’articolo io non sia perseguito per qualche trovata di un magistrato come quello di Lamezia, che disattenda il mio diritto costituzionale alla libertà di opinione? Chi assicura ognuno di noi, se ci troviamo di fronte a un giudice così?
Già a questo punto potrei rivolgere la mia preghiera ai giudici di Catanzaro, che voglio immaginare − in quanto magistrati − persone dotate di cultura. Devo, però, prima finire di raccontare i fatti, poiché a un certo punto c’è stato un colpo di scena clamoroso, che ha stravolto i termini di tutta la questione. In sintesi, è successo che una calabrese colta e intelligente si è posta, finalmente, la domanda giusta: ma questo benedetto Villella, chi era veramente? Così, è nato il libro di Maria Teresa Milicia Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso (ed. Salerno, 2014). Si tratta di una docente di Antropologia all’Università di Padova, che con sagacia metodologica degna degli straordinari Giochi di pazienza di Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi, ha compiuto una ricerca a tappeto su tutta la vicenda (io stesso devo molto a questo eccellente libro per i fatti di cui sto parlando). Ed ecco che, laddove nessuno dei dilettanti che ci avevano provato era riuscito a trovare una ralla sul povero Villella, è arrivata una professionista e ha trovato tutto quel che c’era da trovare. Dati anagrafici, professione, famiglia e, soprattutto, i motivi della sua carcerazione. E qui è crollato il mito del brigante. In effetti, Villella Giuseppe fu Pietro, nato a Motta Santa Lucia nel 1802 e morto a Pavia nel 1864, non era stato mai un brigante. Faceva lavori stagionali, alternando quello di bracciante agricolo a quello di «pecoraro»; e nel 1844 era stato condannato per avere rubato, con un complice, «cinque ricotte, una forma di cacio, due pani» ed un «capretto», di cui «avvolsero la carne in un fazzoletto che anche avevano rubato». Il povero Villella era stato pizzicato dalle guardie «col fazzoletto in mano, ove aveva la carne del capretto»; tentata la fuga, era stato arrestato, beccandosi dalla giustizia borbonica ben sei anni di galera. Scontata la pena, qualche tempo dopo era stato arrestato nuovamente, per furto e per aver appiccato un incendio in un mulino. Condannato e tradotto in carcere a Pavia (c’era ormai lo Stato unitario), vi era morto per malattia prima di scontare la sua pena. Un poveretto, insomma.
Tutto quanto si era detto fino a quel momento, dunque, era una montagna di panzane, baggianate false almeno quanto le teorie dell’esecratissimo Lombroso. Un brigante Giuseppe Villella non è mai esistito, il che spiega storicamente perché a Motta Santa Lucia nessuno ne avesse sentito mai parlare. Ciò, naturalmente, inficia ancor più la decisione del giudice di Lamezia, fondata sul fatto che Villella era un brigante: pur accettando (per assurdo) il ragionamento del magistrato, non si capisce per quale motivo la gente dovrebbe andare a Motta Santa Lucia (con tutto il rispetto) per vedere la tomba di uno che s’era fregato mezzo capretto e un paio di ricottelle. Avrei compreso (non condiviso) se si fosse trattato realmente di un brigante. Ma grazie al libro di Milicia è dimostrato che il cranio di Villella non è quello che si era ritenuto. Esso esiste storicamente solo in quanto lo ha fatto esistere Lombroso, sottraendolo a una fossa comune. E ancora oggi esso ha un valore storico e scientifico solo all’interno del contesto del Museo, nel quale ha un posto d’onore in quanto è spiegato, con molta chiarezza, che oggi quel cranio è un simbolo dell’evoluzione della scienza, che procede, sempre, pure commettendo errori.
Chiudo rivolgendomi, con grande rispetto, ai signori giudici di Catanzaro. Mi permetto di pregarvi: non fateci vergognare d’essere calabresi, non esponeteci anche voi al pubblico ludibrio. Rispettiamo la scienza nel suo procedere storico, con tentativi, errori e correzioni. E siamo fieri della nostra Calabria quando i suoi figli danno contributi alti, come il libro di Maria Teresa Milicia, che ci ha dimostrato, prima che fosse troppo tardi, che quel cranio non è affatto ciò che si era immaginato.

*ricercatore all’Università di Torino

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