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Chiesta la conferma delle condanne per il gotha della 'ndrangheta

REGGIO CALABRIA Conferma di tutte le condanne emesse in primo grado per tutti gli imputati, fatta eccezione per il boss Cosimo Alvaro, gli imprenditori Nino Crisalli e Carmelo Barbieri, per i quali…

Pubblicato il: 26/10/2016 – 16:16
Chiesta la conferma delle condanne per il gotha della 'ndrangheta

REGGIO CALABRIA Conferma di tutte le condanne emesse in primo grado per tutti gli imputati, fatta eccezione per il boss Cosimo Alvaro, gli imprenditori Nino Crisalli e Carmelo Barbieri, per i quali devono cadere alcune aggravanti contenute nei capi di imputazione loro contestati. In più, tutti devono essere considerati «delinquenti abituali». È questa la richiesta avanzata dal pg Giuseppe Adornato al termine della sua requisitoria al processo d’appello Meta, scaturito dall’inchiesta che ha fotografato le nuove dinamiche dei clan reggini, arrivando a individuare la nuova struttura dell’associazione, a partire dal direttorio che la governa.

LA ‘NDRANGHETA NUOVA Una concezione rivoluzionaria della struttura della ‘ndrangheta, fondamentale per alzare il livello dello scontro emancipandolo dal contrasto alla mera struttura militare. Massima espressione della ‘ndrangheta visibile, il direttorio sarebbe anche cerniera con la cosiddetta ‘ndrangheta “invisibile”, che dell’organizzazione è il cuore strategico e programmatico. Un livello individuato con l’inchiesta Mammasantissima, che di Meta è la naturale prosecuzione e oggi minaccia di squarciare il velo su molto borghesia, reggina e non solo, che ha prosperato in combutta con i clan.

ECCEZIONE DI NULLITÀ RESPINTA Una prospettiva che preoccupa molti, che – non a caso – hanno seguito con interesse l’eccezione con cui l’avvocato Manna, difensore del capocrimine Giuseppe De Stefano, ha tentato di mandare a gambe all’aria il processo. Per il difensore, la sentenza di primo grado sarebbe da considerare nulla, alla luce della «sovrapponibilità» fra alcuni passaggi dell’ordinanza di custodia cautelare e la sentenza di primo grado. Doglianza rispedita al mittente dalla Corte d’appello presieduta dal giudice Giacobelli, che ha dato il via libera al pg per la conclusione della requisitoria, iniziata nella scorsa udienza dal pm Giuseppe Lombardo, applicato anche in appello all’inchiesta che ha coordinato in fase di indagini, che ha continuato a costruire nel corso del lungo dibattimento di primo grado e oggi difende in appello.

LA SUPERASSOCIAZIONE E IL SUO LEADER «Un’inchiesta – ha spiegato il sostituto procuratore della Dda nel corso della propria requisitoria – che ha spiegato come la ‘ndrangheta si evolva, e come sia riuscita a evolversi, capace di cambiare le regole adeguandosi ai tempi in cui opera. Esibendo sempre una forza micidiale». Dopo una guerra sanguinosa che ha lasciato sul terreno oltre 700 morti ammazzati, le ‘ndrine si sono date nuova forma ed «è nata la compattezza di oggi con le cosche che ragionano all’unisono e che operano una accanto all’altra», ha sottolineato il pm. Un sistema garantito dal direttorio di clan che governa la ‘ndrangheta visibile, grazie a «un processo evolutivo di accentramento del potere decisionale nelle mani di pochi grandi capi – spiegava il Collegio in sede di motivazione della sentenza di primo grado – così da poter determinare “a monte” le decisioni vincolanti, irradiandole a pioggia verso ì livelli inferiori di siffatta struttura gerarchica, da un lato, e sì da poter relazionarsi con ambienti più elevati di tipo politico istituzionale, dall’altro lato». Una superassociazione, che in Giuseppe De Stefano – ha messo in chiaro il pm Lombardo – «ha il suo amministratore delegato che opera da indiscusso leader, perché gode della fiducia piena degli altri soci di riferimento».

AVVOCATO DI SE STESSO E come in primo grado, anche in appello, De Stefano ha atteso le fasi conclusive del processo per intervenire a propria difesa. Lui non ci sta a essere definito capocrimine, professa la sua innocenza, giurando e spergiurando la propria estraneità alle accuse che gli vengono mosse. Ma nella sua personalissima arringa, si spinge oltre. Ai giudici chiede infatti di acquisire una serie di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Roberto Moio, Consolato Villani e persino dell’odiato Nino Fiume, ex fidanzato storico della sorella Giorgia e per anni suo braccio destro, come la conversazione dello zio, Franco Chirico, che intercettato dagli uomini del Ros afferma «a Reggio comandano… i segreti».

NUOVE ACQUISIZIONI? Tutti elementi che per De Stefano proverebbero in maniera chiara che non è lui il capo, ma c’è un altro e più importante vertice della ‘ndrangheta reggina. Una tesi che i suoi avvocati – Marcello Manna e Marco Panella – si occuperanno di illustrare in una memoria che presenteranno il prossimo 25 novembre e di cui chiederanno l’acquisizione, nonostante la fase istruttoria sia chiusa, perché ritenute prove assolutamente necessarie al fine dell’accertamento della verità. Materiale che si aggiunge all’enorme numero di atti e documenti arrivati sulle scrivanie dei giudici dell’appello per definire il secondo grado del procedimento Meta.

LE CONDANNE DEL PRIMO GRADO In primo grado, il Collegio aveva distribuito oltre trecento anni di carcere fra tutti gli imputati, per la maggior parte dei quali è stata chiesta la conferma della pena. All’epoca, il capocrimine De Stefano è stato condannato a 27 anni, mentre a una pena di 20 anni di reclusione sono stati condannati il superboss Pasquale Condello, Giovanni Tegano e Pasquale Libri, il “custode delle regole”. Una condanna pesantissima, pari a 23 anni di reclusione, è arrivata anche per Domenico Condello, nipote del superboss e all’epoca riconosciuto dal Tribunale come elemento di collegamento fra il direttorio e il resto dell’organizzazione. Ventitré anni era stata la pena decisa per Pasquale Bertuca, mentre era di 21 anni la condanna inflitta a Antonino Imerti e di 18 anni e 4 mesi quella disposta per Giovanni Rugolino. Per il boss Cosimo Alvaro, i giudici hanno invece deciso una condanna a 17 anni 9 mesi e dieci giorni di reclusione più 1500 euro di multa, mentre è stata di 16 anni la pena inflitta a Domenico Passalacqua e Francesco Creazzo. Sono invece 13 gli anni di reclusione decisi per Natale Buda, mentre dovrà scontare 10 anni di carcere Stefano Vitale. Una condanna pesante è arrivata anche per l’imprenditore Nino Crisalli, condannato dai giudici a 7 anni di carcere perché pur di riscattare il proprio patrimonio all’asta fallimentare, durante la quale stava per essere liquidato, ha deciso di chiedere “garanzie”, legittimando «l’autorità dei vertici territoriali della ‘ndrangheta e contribuendo dunque al rafforzamento dell’organizzazione per l’ex sindaco di San Procopio, Rocco Palermo, punito con 4 anni e sei mesi di carcere, Antonio Giustra infine, è stato condannato a 3 anni e sei mesi, mentre per Carmelo Barbieri, è stata fissata in tre anni.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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