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Il patto che ha condannato Reggio

REGGIO CALABRIA Una rivoluzione. Nella storia della ‘ndrangheta, “Padrini e padroni” la nuova pubblicazione del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, e del giornalista e studioso Anton…

Pubblicato il: 03/11/2016 – 21:35
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Il patto che ha condannato Reggio

REGGIO CALABRIA Una rivoluzione. Nella storia della ‘ndrangheta, “Padrini e padroni” la nuova pubblicazione del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, e del giornalista e studioso Antonio Nicaso, è una rivoluzione. «Abbiamo spostato la lancetta della storia indietro di decenni», dice il magistrato. Ma non si tratta di una semplice ricerca accademica. Quella che Gratteri e Nicaso hanno scritto, sulla base dei documenti conservati e catalogati dall’archivio di Stato di Reggio Calabria diretto da Mirella Marra, è la storia di una schiavitù cui la classe dirigente reggina ha condannato la città e la Calabria, divenute base di un dominio che oggi non conosce confini né regionali, né nazionali.

LA CONDANNA DEI LATIFONDISTI Pur di rimanere tali, ai tempi dell’unità d’Italia i proprietari terrieri reggini hanno stretto un patto di ferro con la nascente ‘ndrangheta, cui hanno consegnato il destino di migliaia di persone. E non solo di Reggio Calabria. Perché la storia della ‘ndrangheta reggina è la storia della ‘ndrangheta tutta, fotografata nel suo rapporto asfissiante con le istituzioni. 

PATTO ANTICO «L’abbraccio, la sinergia e il mutuo interesse fra la classe dirigente e la ‘ndrangheta – sottolinea Gratteri – è antico». E misurabile anche con i risultati elettorali. Era fine Ottocento e a battersela – spiega Nicaso – erano la destra clericale e quella liberale cavouriana. «Grazie ai buoni uffici del boss Francesco De Stefano di Spirito Santo e Sbarre e della setta degli accoltellatori – sottolinea il giornalista e docente – i sostenitori di Cavour hanno intascato una vittoria impensabile a Reggio Calabria contro i clericali».

IPOCRISIE TOPONOMASTICHE Una storia che nel tempo si è ripetuta uguale a se stessa. Cambiano i nomi dei candidati, gli schieramenti e i loro programmi, ma l’autoproclamata classe dirigente reggina ha continuato a scendere a patti con la nascente ‘ndrangheta e i suoi sempre meglio noti e più riconoscibili capi. Non cambia il gigantesco inganno che ha fatto sì che «persone passate alla storia come grandi uomini, che hanno fatto la storia della città, hanno goduto dell’appoggio della ‘ndrangheta. E così, la città infiammata da sterili polemiche sul sindaco Italo Falcomatà, glorifica nelle piazze e nelle strade uomini come Biagio Camagna e Demetrio Tripepi, che – testimoniano documenti autografi – hanno chiesto permesso alle ‘ndrine prima di entrare in politica, o si sono scappellati di fronte ai grandi boss del tempo.

LA RICOSTRUZIONE VENDUTA Da allora, sull’altare di quel patto scellerato – spiegano documenti alla mano Gratteri e Nicaso – sono state immolate tutte le occasioni di sviluppo e rilancio di Reggio Calabria. È il caso della legge pro Calabria del 1905 e delle sue successive integrazioni. È il caso del terremoto del 1908, o meglio della ricostruzione, regalata insieme agli assegni staccati dal governo, agli ‘ndranghetisti cresciuti negli Stati Uniti e tornati per riscuotere denari e consensi. GLI AMERICANI Il più noto è Francesco Filastò, originario di Santo Stefano d’Aspromonte, partito da straccione per gli Stati Uniti e lì divenuto vicesceriffo, tornato da capo e diventato interlocutore per la classe dirigente di Reggio Calabria. «Gli aiuti per la ricostruzione successiva al terremoto del 1908 sono stati gestiti dalla ‘ndrangheta insieme alla classe dirigente locale». Erano 170 milioni di lire. «In cambio di questi soldi – sottolinea Gratteri – i latifondisti hanno venduto la Calabria poco dopo il sisma che ha quasi spazzato via Reggio».

FASCISMO AMICO DELLE ‘NDRINE E nulla è cambiato – dice chiaramente Nicaso – sotto il fascismo. «Gli ‘ndranghetisti erano protetti e tutelati dai vertici del regime. Uno dei massimi gerarchi del partito nazionale fascista era uno ‘ndranghetista». Con buona pace della vulgata secondo cui il regime ha combattuto le ‘ndrine. «La ‘ndrangheta – spiega Nicola Gratteri – è difficile da sconfiggere perché è potere e tutti ci sono scesi a patti». 

QUESTIONE DI CREDIBILITA’ Un dato rimasto una costante nel tempo, mentre il rapporto fra criminalità e politica «è solo peggiorato», dice netto Gratteri. «Oggi, a casa dei capomafia vanno i politici, decenni fa erano gli ‘ndranghetisti con il cappello in mano a presentarsi dai politici. Nonostante le centinaia di arresti e le migliaia di anni di carcere comminati, il mafioso per alcuni rischia di risultare più convincente, più credibile, più performance di molti politici». Sanno rispondere e interpretare  le necessità della gente, spiega il magistrato, anche prima e meglio della politica. Certo, chiarisce Gratteri, non è la povertà che porta a scendere a patti con la ‘ndrangheta. Ma le ‘ndrine sanno strumentalizzarla, sanno usare il bisogno come leva per irretire i più deboli. Per questo, spiega Gratteri, «noi istituzioni abbiamo il dovere di essere credibili. E questo significa non giocare con due mazzi di carte».

CAPIRE LA ‘NDRANGHETA Una necessità che oggi si accompagna alla sfida di comprendere il fenomeno. E contrastarlo. «Il principio di Falcone, “follow the money”, non ha più senso oggi, perché il denaro non si muove dalle banche dei paradisi fiscali. Ci sono faccendieri che depositano dollari sporchi, provenienti dal narcotraffico nelle banche, che poi erogano prestiti per cantieri e palazzi, usando a garanzia i soldi della cocaina». Un meccanismo che ha effetti a cascata a Milano come a Londra, a Milano come a Dubai. E questo – sottolinea il giornalista e studioso – è un problema che l’economia globale – e non solo – per lungo tempo ha eluso e ora si deve porre. A partire da una serie di equivoci che è necessario sfatare per comprendere pienamente il fenomeno.

DOVERI PER MOLTI, RICCHEZZA PER POCHI  Se è vero che la ‘ndrangheta non crea posti di lavoro – spiega Nicaso – ma «vincoli, obblighi, doveri», è sbagliato pensare che le mafie non producano ricchezza. «Fanno tanti soldi, ma sono per pochi». E oggi sempre più impalpabili e inafferrabili, grazie ad una progressiva finanziarizzazione dell’economia che permette di triangolare tra diversi paradisi fiscali, dislocati nei più lontani angoli del globo, incalcolabili quantità di denaro. «I problemi del contrasto globale ad un fenomeno che non è ancora universalmente conosciuto sono noti», spiega il giornalista e studioso, «ma c’è da dire anche in Italia non riusciamo a stare al passo con le organizzazioni criminali e quando lo facciamo avviene in modo discutibile».

RIFORME INVOLUTE, PROPOSTE ABBANDONATE L’esempio – ormai divenuto quasi classico – è l’inutile modifica del 416 ter, che sanziona lo scambio elettorale politico mafioso. «Se ci sono un politico e un mafioso che stringono rapporti e si scambiano favori, il politico non può essere meno responsabile del mafioso», dice Nicaso che ricorda quelle proposte di riforma del sistema giustizia, elaborate dalla commissione guidata da Gratteri per volere del governo Renzi e «rimaste nel cassetto». Un indizio chiaro della vera natura della ‘ndrangheta e delle mafie in generale, che – aggiunge – «non sono un problema di magistrati e polizia, sono un problema sociale».

PICCOLE RIVOLUZIONI Proprio per questo, sottolinea Gratteri, «non è il piano giudiziario che mi preoccupa. Quando ci sarà un popolo che ha memoria, che quando vota lo fa con coscienza, ci sarà una classe politica forte, convinta e determinata a creare un sistema giudiziario coerente con la Costituzione e non conveniente per le mafie. In questo modo, nel giro di 6-7 anni le mafie sarebbero sconfitte all’80%». Basterebbe una cosa semplice, un voto consapevole, in grado di spezzare il nodo stretto, ormai oltre un secolo fa, fra ‘ndrangheta e politica. Un principio base di un qualsiasi Stato democratico, ma che nell’Italia di oggi, ha quasi il sapore di una rivoluzione. 

a. c.

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