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Operazione "Gambling", pm: condannare tutti gli imputati

REGGIO CALABRIA Condanne per tutti, incluso il pentito Mario Gennaro. Sono queste le richieste avanzate dai pm Stefano Musolino e sara Amerigo per i 35 imputati dell’inchiesta “Gambling”, l’indagine…

Pubblicato il: 14/12/2016 – 21:06
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Operazione "Gambling", pm: condannare tutti gli imputati
REGGIO CALABRIA Condanne per tutti, incluso il pentito Mario Gennaro. Sono queste le richieste avanzate dai pm Stefano Musolino e sara Amerigo per i 35 imputati dell’inchiesta “Gambling”, l’indagine che ha svelato come i clan avessero trasformato il mondo delle scommesse e dei giochi online in una gigantesca lavatrice di denaro sporco. Arrestato perché considerato la mente del sistema, con le sue dichiarazioni ha contribuito a smantellarlo: ecco perché per il pentito Mario Gennaro la richiesta avanzata dall’accusa è di 3 anni di carcere. LE RICHIESTE Per tutti gli altri invece, le pene vanno dai 12 anni e 6 mesi chiesti per Terenzio Minniti ai nove mesi chiesti per Francesco Chirico, 4 per Domenico Madeo, Giuseppe Zungri, Francesco Zungri, Giuseppe Preiti, Rocco Restuccia e Dario Alfonso Montuori, 5 per Alessia Alessi, Emanuele Cotroneo, Paolo Serpa, Luca Battista Gagni,Paolo Tripodi, Pietro Verduci, Antonietta Gatto, e Antonino Alvaro, 12 anni e 6 mesi per Giovanni Ficara, 5 anni e 6 mesi per Giuseppe Lavilla, Maurizio Lavilla e Antonio Lavilla, 6 anni per Domenico Manti, Pietro Monterosso, Paolo Sciumbaca, Domenico Nucera e Margherita Giudetti, 7 anni per Francesco Ripepi, Rocco Ripepi, Fortunato Stracuzzi, 11 per Vincenzo Nettuno, 12 anni per venerando Puntorieri e Cesare Oscar Ventura , 8 anni per Andrea Vianello, 1 anno per Annunziato Vadala LE ACCUSE Per gli inquirenti, tutti quanti erano a vario titolo terminali del sistema svelato dall’indagine Gambling. Un’inchiesta che ha mostrato in maniera plastica come il settore del gaming online sia divenuto preda dei clan reggini, fotografati per l’ennesima volta nella militarizzazione unitaria e coordinata di un business del tutto nuovo, ma aggredito con regole e meccanismi che – come svelato dall’operazione Meta – sono stati decisi ormai decenni fa e tali rimangono. Nuovi affari, vecchi metodi, storici obiettivi. Il mondo grande dei casinò online, sottratti al controllo dell’Aams, l’agenzia che in Italia dovrebbe vigilare sul settore, per i clan è diventato una gigantesca lavatrice che – al di là delle perdite che ogni operazione di riciclaggio impone – ha permesso di rendere utilizzabili milioni e milioni di euro di provenienza illecita. «Non c’è stato alcun controllo da parte di chi avrebbe dovuto eseguirlo. È necessario porre delle regole al gioco online altrimenti rischia di diventare un gigantesco e incontrollabile meccanismo di riciclaggio», scrivono i pm. E tale era diventato per gli uomini del clan di Reggio. LE REGOLE DEL SISTEMA Il meccanismo utilizzato era fondamentalmente semplice, ma geniale nella sua meticolosa applicazione. Alla base, c’era una consistente schermatura dell’effettiva natura delle imprese di scommesse e giochi on line, garantita da una serie di società formalmente collocate all’estero, come pure dallo spostamento oltre confine dei server necessari per connettersi al sistema e giocare. Uno stratagemma semplice, che le norme oggi in vigore non sono stato di grado di bloccare, ma che ha permesso ai clan di ripulire enormi quantità di denaro e insistenti profitti, poi reinvestiti per l’acquisizione di ulteriori imprese e licenze estere e nazionali per l’esercizio ancora più esteso e remunerativo delle attività. A garantirne l’operatività era un rosario di Centri di trasmissione dati (Ctd), dove contrariamente a quanto impone la norma era possibile fare giocate e puntate in contanti. Un vero e proprio “canale parallelo” per il procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, grazie al quale «tutte le giocate avvenivano direttamente in contanti, attraverso il conto aperto dalla società estera al punto di commercializzazione». Ogni centro era infatti collegato a “bookmaker” esteri (autorizzati a operare la raccolta a distanza in forza di apposite licenze rilasciate dalla competente Autorità maltese) da un apparente “contratto di prestazioni di servizi”, cui settimanalmente trasferiva tutte le puntate che i giocatori versavano in denaro direttamente in agenzia, al netto di perdite e vincite, come della provvigione che rimaneva alla stessa agenzia. Un meccanismo – ha continuato il procuratore – che faceva sì che «il giocatore passasse attraverso la piattaforma di gioco senza essere identificato», ma anche «all’evasione di cifre iperboliche per quanto riguarda le imposte dirette e a un gigantesco giro di riciclaggio». Dietro i presunti bookmaker tuttavia, c’era in realtà la direzione amministrativa dell’associazione, allocata all’estero, ma con tutte le caratteristiche proprie di una locale impresa mafiosa. IL CONTAGIO A diffondere a macchia d’olio le agenzie “infettate” dai clan sarebbe stata una rete piramidale e rigidamente strutturata che al suo vertice vedeva in primo luogo Mario Gennaro e un altro indagato titolari effettivi di “circuiti di gioco”. Definito nei brogliacci dell’inchiesta da Francesco Ripepi (alias Ciccio Tizmor) come uno che da ragazzo era «costretto a rubare i motorini perché non aveva neppure i soldi per comprarsi le calze», Gennaro ha saputo far del suo vizio – che per il pentito Carlo Mesiano lo aveva addirittura «spesso fatto finire sotto usura», la chiave del successo. Uomo di Franco Giorgio Benestare, uno dei cinque generi del boss Giovanni Tegano, ha saputo fare carriera nel settore delle scommesse, diventando non solo country manager della società maltese Betuniq, ma addirittura proprietario occulto della società. Un ruolo messo a disposizione del clan, che in cambio gli ha affidato la gestione dell’intero sistema. IL CENTRO DI COMANDO Il piatto era ricco e come stabilito dalle regole forgiate al fuoco della seconda guerra di ‘ndrangheta, i Tegano – di cui Gennaro è per gli inquirenti espressione – non mangiavano da soli. Da Archi, i centri scommesse e circoli ricreativi gestiti dalle ndrine si erano estesi fino alla provincia di Reggio, a Melito Porto Salvo. Ma, per quanto cambiasse la zona, il sistema rimaneva identico ovunque. A condividere lo scettro del comando insieme a Gennaro – aggiunge il capocentro Dia, Gaetano Scillia – era Domenico La Grotteria, esperto del settore “giochi”, ma anche conoscitore di regole e opportunità offerti da mercati e sistemi finanziari esteri. LA PIRAMIDE DEL GAMBLING Agli ordini di Gennaro, c’era un gruppo dirigente di fedelissimi incaricato di tenere le relazioni tra la struttura tecnico-informatica allocata all’estero e quella amministrativa, tutta saldamente allocata a Reggio Calabria, che ha gestito le affiliazioni delle sale giochi e la raccolta delle scommesse sul territorio. In “patria” a coordinare il lavoro delle agenzie, terminale ultimo del sistema, erano i cosiddetti master, incaricati di raccogliere settimanalmente quanto messo insieme dalle agenzie, ma anche di estendere a macchia d’olio il sistema. In fondo alla piramide invece, c’erano i titolari dei singoli centri, cui venivano aperti uno o più “conti di gioco” (conto “master” o conto di gioco intestato a soggetto compiacente) necessari per consentire on line l’effettuazione delle scommesse o la partecipazione a tornei di poker da parte di una terza persona (il “cliente finale”) che non ha un conto gioco proprio. In pratica, il cliente, senza registrarsi, effettua la puntata tramite un “conto di gioco” nella disponibilità dell’agenzia che gli rilascia una ricevuta. L’eventuale vincita viene, poi, pagata dal Punto di commercializzazione (Pdc) in contanti (anticipando, quindi, le relative somme per conto del “bookmaker”, che in ogni caso ha messo a disposizione dell’agenzia un “fido” per consentire le giocate).Un sistema che permetteva non solo di aggirare in toto la normativa che obbliga all’identificazione e vieta transazioni in contanti, ma anche di mascherare puntate che altro non erano che piccole o grandi operazioni di riciclaggio. RICICLAGGIO Un metodo alla base di quello che gli inquirenti non hanno esitato a definire un sistema scientifico in grado di sottrarre imposte per centinaia di milioni di euro all’Erario, ma soprattutto di immettere nell’economia legale una mole non ancora quantificabile di denaro frutto di proventi illeciti, ma formalmente immacolato. Denaro che per gli inquirenti solo potrebbe venire dal mondo grande del narcotraffico, di cui la ‘ndrangheta è da decenni monopolista nella gestione e distribuzione. Un’ipotesi frutto di un’intuizione investigativa – già emersa e trattata nell’ultima relazione annuale della Dna, dove si dettaglia la specializzazione funzionale dei mandamenti – su cui si sta ancora lavorando, ma che presto – lasciano intendere inquirenti e investigatori – potrebbe diventare molto più specifica e dettagliata.

Alessia Candito a.candito@corrierecal.it

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