Calabria romanzata nella prima di Sergi
COSENZA Ci sono esordi ed esordi. Semplici o tormentati. Silenziosi o che fanno discutere. Ci sono esordi, specialmente in campo letterario, che si caricano di attese, vuoi per il nome dell’autore ch…

COSENZA Ci sono esordi ed esordi. Semplici o tormentati. Silenziosi o che fanno discutere. Ci sono esordi, specialmente in campo letterario, che si caricano di attese, vuoi per il nome dell’autore che arriva all’esperienza narrativa dopo percorsi diversi e visibili, vuoi per la forza della storia raccontata e della lingua con cui la si racconta. È il caso di Pantaleone Sergi che da giornalista s’è fatto storico contemporaneista e adesso, passando dalla storia alle storie si trasforma in romanziere, riprendendo in questa sua terza vita le esperienze delle due precedenti. Con un romanzo dal titolo evocativo, Liberandisdòmini, una invocazione d’aiuto dialettale ricavata dal latino Libera nos domine, liberaci o Signore, Sergi debutta con una storia corale che si svolge a cavallo tra Ottocento e Novecento a Mambrici, una Macondo situata nel Sud della Calabria, immaginaria e allo stesso reale perché in essa si concentrano i problemi e le ansie di cambiamento tipiche di molti paesi del Mezzogiorno di quel tempo. E soprattutto – a conferma che uno scrittore è la sua lingua – Sergi debutta con uno stile intenso tutto suo e la forza di una lingua propria, frutto della fusione dell’italiano con il dialetto e con l’innesto di espressioni di altre regioni o prese in prestito da altre lingue e incorporate nella parlata del tempo che gli hanno permesso, come lo stesso autore spiega nell’Avvertenza ai lettori, una sorta di prologo sulla genesi del romanzo, di dare vitalità espressiva e anche musicalità al racconto, in cui il lettore si sentirà subito invischiato. «Avevo da tempo una storia che mi frullava in testa – afferma l’autore – e finalmente sono riuscito a metterla su carta e offrirla ai lettori curiosi».
Liberandisdòmini, che sarà nelle librerie nei primi giorni di aprile pubblicato da Luigi Pellegrini Editore, così, per una serie di motivi s’annuncia come un caso letterario.
È un romanzo, il primo di una trilogia, che si sviluppa tra fantasia e realtà in un’atmosfera a metà tra il realismo magico di Gabriel García Márquez nel suo “Cent’anni di solitudine” e la realtà decadente de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
È una storia, come spiega lo stesso autore, che si svolge «in un universo parallelo, insieme lontano e vicino, veritiero e incantato, dove tra paura del colera, carestie, gli omicidi, delinquenza comune e mafiosa, può succedere tutto, ma lo stesso tutto può rivelarsi niente, ignoto al tempo e alle geografie terrestri e come tale destinato a scomparire per sempre. E in questa storia sfilano tanti protagonisti, reali – perché realmente esistiti – e fantasmi che poi fantasmi non sono».
Tra incanti e realtà, in uno scenario composto da case “miserrime” che contrastano con le sontuose abitazioni dei notabili del luogo, in particolare con il “palazzo” di don Florindo, sindaco e leader indiscusso di Mambrici, quella raccontata è la vicenda di un paese e di un mondo sospeso tra concretezza e leggenda, dove la vita pubblica è decisa dai notabili che si riuniscono nella farmacia, la gente si cura ancora con unguenti e intrugli preparati dalle magare, la borghesia agraria sta per sparire insidiata dal nascente movimento socialista ma viene sostenuta da una “maffia” che cerca di trovare una sua legittimazione sociale. Ma ci sono anche una struggente storia d’amore, anzi più di una, la tragedia migratoria di quegli anni, la furia della natura che, con il distruttivo terremoto del 1905, cancellerà quel mondo in cui i personaggi nel frattempo sono scomparsi uno a uno.