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La faida dei ragazzi che non risparmia gli innocenti

VIBO VALENTIA Qui “paranze” non ce ne sono, né in mare né nelle strade di paese. I vicoli di Sorianello non sono certo quelli di Napoli, dove negli ultimi anni si è riversata la violenza dei famige…

Pubblicato il: 12/08/2017 – 11:31
La faida dei ragazzi che non risparmia gli innocenti

VIBO VALENTIA Qui “paranze” non ce ne sono, né in mare né nelle strade di paese. I vicoli di Sorianello non sono certo quelli di Napoli, dove negli ultimi anni si è riversata la violenza dei famigerati gruppi di fuoco di adolescenti legati alla camorra. La follia omicida, però, è la stessa. Così come analoga è la giovane età dei protagonisti di una guerra in cui, in Calabria come in Campania, i generali sono lontani dalla trincea e, spesso, a rimanere a terra non sono solo i soldati.
Era già successo nel 2012: in una notte di fine ottobre un ragazzo di 19 anni di Soriano, colpevole solo di aver chiesto un passaggio in auto alla persona sbagliata, moriva dopo ore d’agonia all’ospedale di Vibo. Si chiamava Filippo Ceravolo, e qualcuno gli aveva scaricato addosso diversi colpi di fucile che lo avevano raggiunto alla testa. Due anni dopo è stato riconosciuto vittima di mafia ma, ancora oggi, il padre Martino, dopo che l’indagine sull’omicidio di suo figlio è stata archiviata, continua a invocare giustizia.
Non fu certo un fatto isolato: qualche mese prima che Filippo cadesse sotto il piombo dei pallettoni, si era riaccesa la faida tra i clan di ‘ndrangheta delle Preserre, una guerra sanguinosa che, negli ultimi tre decenni, ha lasciato a terra decine di vittime, diverse delle quali rimaste senza nemmeno una degna sepoltura. E non sarebbe rimasto un fatto isolato: a distanza di 5 anni, a rischiare di fare la stessa, tragica fine del 19enne è stato un ragazzino di 13 anni, Manuel, affetto dalla sindrome di down, colpito di striscio all’addome da un proiettile che era indirizzato al fratello maggiore, Giovanni Alessandro Nesci, 27 anni, che gli camminava a fianco nelle stradine di Sorianello quando qualcuno gli ha teso un agguato. Di certo sapeva di essere nel mirino il 27enne ritenuto vicino al clan Loielo. Quello della sera del 28 luglio scorso non era il primo agguato che subiva: già avevano provato a farlo fuori qualche mese prima, il 2 aprile, ma lui era riuscito ad uscirne vivo come gli sarebbe capitato, di nuovo, nel pieno dell’estate.
Ma in mezzo ai due agguati falliti a Nesci quegli stessi vicoli di Sorianello si sono macchiati del sangue di un’altro soggetto probabilmente legato ai clan della zona, il 46enne Salvatore Inzillo, freddato a fucilate alle 11 di mattina mentre era a bordo del suo scooter. Di entrambi i fatti di sangue, consumati in un fitto intreccio di scalette di pietra, vicoli stretti e case che sembrano costruite una sull’altra, nessuno ha visto o sentito nulla: una circostanza inquietante che fa riflettere sullo stato di terrore in cui è stato ricacciato un intero territorio.  
Gli inquirenti che conoscono bene la zona a cavallo tra le montagne delle Serre e la costa tirrenica non hanno molti dubbi: i tre agguati, a cui va aggiunto l’omicidio del 56enne Domenico Stambè nella vicina Sant’Angelo (frazione di Gerocarne), sono il sintomo fin troppo chiaro che la faida nel “locale” di Ariola non si è mai fermata. È sempre la stessa maledetta storia che va avanti da più di trent’anni.


(Il luogo in cui è avvenuto l’omicidio di Salvatore Inzillo) 

EPOPEA CRIMINALE Già dalla fine degli anni ’70 i Loielo di Gerocarne avevano messo in piedi una vera e propria banda criminale dedita a sequestri e rapine. Ma, nel decennio successivo, furono proprio i dissapori per la spartizione di un bottino a rompere l’alleanza che finora aveva reso predominante quel clan. Così, alla fine degli anni ’80, iniziò la faida tra i Loielo e i Maiolo di Acquaro. Fu versato parecchio sangue fino al 1998 quando, con la scomparsa dell’ultimo capo dei Maiolo, Antonio, la guerra sembrò volgere al termine a favore dei Loielo. Da lì a qualche anno, però, un nuovo boss si sarebbe imposto sul territorio: si tratta di Bruno Emanuele, che nell’aprile del 2002 si sbarazzò a colpi di fucile, con l’aiuto dell’allora boss di Cassano Tonino Forastefano, dei fratelli Pino e Vincenzo Loielo (omonimi dei cugini più anziani) che in quel momento erano al vertice della cosca. Un anno dopo la “strage di Ariola”, in cui rimasero a terra i corpi dei cugini Francesco e Giovanni Gallace e di Stefano Barilaro, mise momentaneamente fine alle ostilità.  A dominare il “locale” di Ariola nei dieci anni successivi sarebbe stato Bruno Emanuele, giovane e spietato capocosca che non aveva timore a rivendicare autonomia nemmeno nei confronti dei Mancuso.

LA NUOVA FAIDA Il macabro balletto di sangue ricominciò il primo aprile del 2012: qualcuno attentò alla vita di Giovanni Emmanuele, parente del boss, all’epoca 24enne, ma fallì. L’ipotesi degli inquirenti, tuttora non confermata per via giudiziaria, è che a compiere l’agguato possa essere stato qualcuno che da poco si era avvicinato ai Loielo e che voleva portare una referenza di sangue per entrare nel clan. 
L’odio tra gli Emanuele e i Loielo, fin dall’aprile del 2002, era rimasto sotto la cenere ma non si era mai spento. Così la risposta di fuoco non si fece attendere e, il 2 giugno 2012, venne ucciso Nicola Rimedio, all’epoca 26enne. Poi lo stesso destino toccò ad Antonino Zupo, Domenico Ciconte e Salvatore Lazzaro. E pure a Filippo Ceravolo, che a differenza delle altre vittime non aveva nulla a che vedere con i clan locali.


(Il corpo senza vita di Domenico Ciconte)

Sarebbe seguita una breve tregua, ma le lupare avrebbero ricominciato a cantare nel luglio 2014 con il tentato omicidio di Valentino Loielo, figlio 20enne del defunto boss Pino, scampato all’agguato tesogli mentre era in auto con la madre e la sorella. Mentre tra ottobre e novembre del 2015 si sono consumati altri due agguati falliti contro la famiglia Loielo, con bersagli Antonino Loielo e il figlio Alex prima, e Valerio, Walter e Rinaldo Loielo poi. Nel primo caso, i due bersagli dei killer viaggiavano nella loro Panda assieme alla compagna di Antonino, una 34enne incinta di sette mesi, e ad altre due figlie di 13 e 5 anni, tutti rimasti illesi o feriti lievemente.
Oggi gli elementi “di peso” delle due cosche sono in carcere (come i fratelli Bruno e Gaetano Emanuele) o morti (come Pino e Vincenzo Loielo), quindi a piede libero, da entrambe le fazioni, sono rimasti per lo più ragazzi che non hanno l’esperienza e il carisma criminale degli affiliati più anziani. E a testimoniarlo è anche la serie di agguati falliti che, però, d’altro canto dimostra anche la spregiudicatezza delle giovani leve, che non si fanno scrupoli a sparare anche quando si rischia di colpire vittime innocenti, addirittura bambini, disabili e donne incinte.

 
(L’auto su cui viaggiavano Antonino e Alex Loielo al momento dell’agguato)

COCA, ARMI E FOLLIA IN UN FAZZOLETTO DI TERRA Sono quasi tutti giovani i protagonisti di questa tragica storia criminale. Si alternano di volta in volta nei ruoli di vittime e carnefici, hanno quasi tutti meno di 30 anni e molti di loro, secondo gli inquirenti, sono pronti a sparare con una follia omicida che ricorda molto i “nuovi” clan della camorra. Si spara per dare prova di coraggio agli affiliati più anziani, molti dei quali finiti in carcere con l’inchiesta “Luce nei boschi”, ma si spara soprattutto per colpire prima che gli altri ti colpiscano. Una violenza preventiva, insomma, che ha portato a una guerra drammatica tra ragazzi che molto spesso abitano a pochi metri l’uno dall’altro. Ragazzi spesso schiavi del senso di onnipotenza alimentato da un consumo massiccio di cocaina, che tra i
vicoli di Sorianello come nelle vicine pianure di Ariola sono ormai abituati a guardare in faccia i nemici della porta accanto.

 

L’operazione “Ghost”, scattata nel gennaio del 2011, ha rivelato l’esistenza, tra le campagne di Gerocarne, di una centrale della cocaina che, secondo le forze dell’ordine, poteva fruttare fino a 5mila euro al giorno e dare da vivere a decine di famiglie della zona. Un business tuttora ricco e appetibile che, associato ai vecchi desideri di vendetta, magari alimentati da scaltri “registi” pronti a trarre beneficio da lutti e tragedie, ha finito per armare la mano di “giovanotti” pronti a spararsi addosso in pieno giorno senza dare alcun valore alla vita umana. Nemmeno a quella di un ragazzino, di una mamma, di una sorella, di qualunque innocente che paga come fosse una colpa il destino di essere nato in luoghi di cui il resto della Calabria, e del Paese, non sembra nemmeno accorgersi.

Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it

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