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LE INCHIESTE

La ‘ndrangheta al Nord: affari, politica e «una società che non si guarda allo specchio»

Processi e inchieste dell’ultimo anno svelano il volto nuovo della mafia calabrese spesso raccontata per stereotipi

Pubblicato il: 11/04/2021 – 9:39
di Francesco Donnici
La ‘ndrangheta al Nord: affari, politica e «una società che non si guarda allo specchio»

REGGIO CALABRIA Nell’epoca in cui fascinazione e negazione del male vanno stranamente a braccetto, può capitare che un giornalista spagnolo si prenda la briga di girare un finto documentario sulla ‘ndrangheta a Milano e che una nota emittente televisiva lo acquisti per una cifra di poco inferiore a 500mila euro.
Il copione procede per stereotipi e spesso viene scritto in partenza: il criminale è il “calabrese imbruttito” o lo straniero – meglio se africano – e il palcoscenico è la periferia. Ma in quale “periferia” si collocano le presunte infiltrazioni nei consigli regionali di Valle d’Aosta e Piemonte o le feste dell’associazione culturale trentina alle quali partecipavano anche Cavalieri, medici ed ex prefetti mentre i clan progettavano l’assalto alle cave di porfido? Avvengono forse solo a Modena, inteso come quartiere di Reggio Calabria, le spedizioni punitive in pieno giorno o forse anche nel centro di Verona? La ‘ndrangheta non può più essere relegata ad un mero racconto di buoni e cattivi, Nord e Sud. Le inchieste e i processi svolti solo nell’ultimo anno in alcune regioni del Centro-Nord ne sono esempio.

La “sindrome di Grimilde”

Brescello, comune sciolto per infiltrazioni della ndrangheta

Più veritiera è la ricetta data da Sandro Pecorella, gup del processo “Grimilde”: «La società vive la “sindrome” di chi non vuole guardarsi allo specchio per evitare di essere messa di fronte alla realtà». La massima, presa in prestito dall’ex Pna Franco Roberti, è contenuta nella sentenza del rito abbreviato della “costola” di “Aemilia”. Le pagine sono 1.400 e 41 le condanne. Il che, secondo il giudice, è già di per sé una mezza sconfitta considerato che gli arresti e i processi non hanno prodotto quell’effetto deterrente, ma soprattutto quella consapevolezza chiesta alla collettività. Esempio pare esserne il Comune di Brescello (in provincia di Reggio Emilia), ritenuto feudo dei Grande Aracri e sciolto nel 2016. «L’atteggiamento di acquiescenza degli amministratori comunali – si leggeva nell’allegato al decreto di nomina della commissione – nei confronti della locale famiglia malavitosa si è poi trasformato in vero e  proprio assoggettamento al volere di alcuni affiliati alla cosca. […] Significative, la tolleranza e l’accondiscendenza del sindaco, tanto radicate da indurlo a rilasciare ai media alcune dichiarazioni di grande impatto in favore del capo cosca locale».
Rincara oggi il gup: «A distanza di qualche anno (dallo scioglimento, ndr) la situazione non appare cambiata almeno nelle sue manifestazioni spicciole esteriori».

L’evoluzione della ‘ndrangheta al Centro-Nord

La ‘ndrangheta al Centro-Nord è un fenomeno radicato da decenni, ma conosciuto da molto meno tempo. Complice, in tal senso, è anche la difficoltà della giurisprudenza di ingabbiare nella fattispecie dell’articolo 416-bis del codice penale gli episodi concreti che si verificano oltre i confini delle regioni “storiche”. Uno degli ultimi esempi è stato il processo “Black Monkey”. Il gruppo capeggiato da Nicola “Rocco” Femia, che faceva profitti con le slot, estorsioni e minacciava di «sparare in bocca» ai giornalisti, non è da considerarsi associazione mafiosa. Lo ha confermato la Cassazione questo 18 marzo, ricalcando la linea della Corte d’Appello di Bologna. «È stata evidenziata – scrivono i giudici – l’assenza di un concreto esercizio, sufficientemente percepito, sul territorio di riferimento e nel contesto sociale della forza di intimidazione tipica dell’associazione mafiosa, anche e specificamente in riguardo alle categorie interessate dall’attività commerciale».
Sempre in Emilia Romagna, però, i processi “Aemilia” e “Grimilde” stanno scrivendo un copione diverso. Le prime manifestazioni della «”locale” autonoma rispetto alla “casa madre” di Cutro» risalgono ai procedimenti “Edilpiovra” e “Grande Drago” dei primi anni 2000. Ma le mire espansionistiche di Nicolino “mano di gomma” risalgono già ai primi anni 90 e alla guerra coi “Ciampà-Dragone”.
La struttura pensata dal boss considera un “sovrintendente” per provincia: Francesco Lamanna su Piacenza, Alfonso Diletto su Parma o Nicolino Sarcone e Francesco Grande Aracri su Reggio Emilia. Francesco, classe 54 e Salvatore, classe 79, sono i Grande Aracri di Brescello, rispettivamente fratello e nipote del boss. Secondo il gup di “Grimilde”, la loro attività nel sodalizio si sarebbe intensificata «dopo gli arresti di “Aemilia”» e la stessa sorte sarebbe toccata a Giuseppe Grande Sarcone, ultimo tassello del puzzle inserito con l’operazione “Perseverance” dello scorso 12 marzo. Il 60enne sarebbe «vissuto nel cono d’ombra generato dalla presenza dei fratelli Nicolino e Gianluigi» e il suo potere sarebbe cresciuto dopo i loro arresti.
La sentenza d’Appello del processo “Aemilia” spiega l’evoluzione del «sodalizio di ‘ndrangheta, risultato avere rapporti con quei poteri che istituzionalmente ne dovrebbero contrastare l’esistenza e con i quali l’associazione di stampo mafioso fisiologicamente si scontra».

Il boss Nicolino Grande Aracri

Le “locali” e la “casa madre”

Dalle battaglie sanguinarie all’integrazione nella società, il sodalizio arriva quindi ad assumere «la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le caratteristiche della classica tradizione ‘ndranghetista calabrese alle modalità operative agili e funzionali a penetrare nel profondo della realtà socio-economica».
Ne deriva l’immagine di un mutaforma che si adatta ai tempi e ai contesti preservando alcune caratteristiche imprescindibili. Al Nord come al Sud, fondamentale è il “riconoscimento”, ovvero la legittimazione delle “locali” da parte della “casa madre” calabrese. L’esempio in questo senso lo si ritrova nella recente operazione “Cardine-Metal Money” (9 febbraio 2021) incentrata sulla figura di Cosimo Vallelonga, già condannato in “Infinito” e ritenuto capo della “locale” di Lecco, in Lombardia. Essersi formato al fianco del boss Peppe Mazzaferro – attivo già dagli anni 60 oltre regione – con la dote di “Vangelo”, gli ha permesso di riacquistare velocemente il territorio una volta tornato in libertà articolando un presunto sistema di estorsioni, usura e traffico illecito di rifiuti (anche radioattivi) finalizzato al riciclaggio di denaro.
Nella regione, quella capeggiata da Vallelonga è una 25 “locali” di ‘ndrangheta censite dalla Dia in quanto coordinate da una «cabina di controllo» denominata “La Lombardia”, in stretto collegamento con “La Mamma” calabrese. Una sorta di interfaccia che opera sul territorio per tenere distinte le cellule legittimate da quelle “bastarde”.

La mafia “silente” e le intimidazioni

Sul fenomeno della mafia “silente” si è soffermata la procura distrettuale veneta, nell’inchiesta “Isola Scaligera” volta a dimostrare la presenza a Verona di una “locale” facente capo agli “Arena-Nicoscia” di Isola Capo Rizzuto. Da un lato c’è il volto di un’associazione che evita le manifestazioni eclatanti di violenza per infiltrarsi, contaminandoli, nei circuiti economici della regione. Dall’altro la Dda prende in esame episodi come quello seguito al licenziamento di Alfredo Giardino (“famiglia” al centro dell’inchiesta) condito dalle minacce di morte per la titolare della sala slot dove lavorava e il pestaggio del dipendente che aveva denunciato gli ammanchi di cassa riconducibili al “rampollo”. La spedizione punitiva era stata organizzata «in pieno giorno davanti a testimoni» con il fine di «affermare la supremazia del sodalizio, rafforzando nel soggetto passivo il timore di quello che può definirsi un metodo mafioso».
Come suggerito dal procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, all’esito dell’operazione “Chirone”, se le mafie smettono di sparare forse è perché non ne hanno più bisogno: «Non gli serviva più intimidire, bastava il blasone della “famiglia” per ottenere favori e lasciapassare».
Emblematica è la frase con cui uno degli indagati di “Isola Scaligera” si presenta al dipendente di una banca da cui esigeva un credito: «Tu hai presente l’operazione che hanno fatto a Isola? (“Jonny”, nd)».
Non associare la ‘ndrangheta oltre confine a manifestazioni violente rende più difficile il riconoscimento del fenomeno da parte dei giudici. Ma inchieste come “Habanero” della Dda di Milano e “Perfido” della Dda di Trento dimostrano come l’intimidazione, ancor più se eclatante, in alcune zone potrebbe produrre l’effetto opposto. La criminalità si muove quindi attraverso sofisticati meccanismi di ingresso nell’economia e movimentazione dei capitali, anche con l’ausilio della criminalità organizzata straniera.
Operazioni che rendono necessario l’apporto di “colletti bianchi” o soggetti che la Dda di Trento definisce “cerniere” tra la ‘ndrangheta e il resto della società. Capaci, com’è il caso del cavaliere della Reppublica Giulio Carini, indagato in “Perfido”, di aprire le porte giuste e intessere relazioni con la parte della città che conta. “Silente” o meno che sia, l’operatività della ‘ndrangheta su un territorio produce sempre una sorta di gabbia sociale che inibisce la libera concorrenza nel mercato e le libertà politiche.

Lo scambio politico-mafioso

«Se Rosso è una brava persona, vediamo di dargli una mano …» Il 7 aprile sono arrivate nell’Aula Bunker di Torino alcune intercettazioni confluite nell’indagine “Fenice-Carminus”, che vede alla sbarra l’ex assessore regionale di Fdi Roberto Rosso. L’accusa è quella di “scambio politico-mafioso”. La voce intercettata, invece, è di Francesco Viterbo, personaggio legato alla criminalità organizzata calabrese, condannato con rito abbreviato a 7 anni e 7 mesi e «sostenitore» del politico. In cambio, insieme a Onofrio Garcea (anche lui condannato, a 4 anni e 8 mesi) avrebbe ricevuto dal candidato ed ex assessore, 7.900 euro, versati in due tranche. Non è l’unico esempio.
L’operazione “Geenna” ha ad oggetto le trame della “locale” di Aosta facente capo ai “Nirta” di San Luca (Bruno Nirta, presunto “coordinatore”, è stato condannato a 12 anni e 8 mesi) «facilitata dall’intermediazione delle logge massoniche».
A settembre 2020, il tribunale di Aosta per l’altra “metà” della cellula di ‘ndrangheta (rappresentata da Antonio Raso, condannato a 11 anni) aveva condannato per “concorso esterno” il consigliere regionale sospeso Marco Sorbara, già alle politiche sociali ad Aosta, e Monica Carcea, titolare della delega alle finanze a Saint-Pierre, Comune in seguito sciolto per ‘ndrangheta.
Gli episodi dimostrano come il presunto appoggio degli uomini dei clan arrivi prima dell’elezione.
Laddove l’intervento sia invece successivo, si cerca di agganciare il politico attraverso l’intimidazione o qualche conoscenza in comune. Poteva essere il caso del sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, che gli uomini di Grande Sarcone avevano provato ad agganciare per aggirare alcuni ostacoli burocratici ai loro affari. Il primo cittadino ha invece segnalato il fatto alle autorità e proprio da lì ha avuto avvio l’inchiesta “Perseverance”. Quello che più fa riflettere della vicenda, è il suo carattere straordinario quando invece «è la normalità», dice il sindaco.
Ecco perché torna in mente la massima del gup di “Grimilde”, quella della società che culla le sue chimere su voci accondiscendenti fino ad accorgersi che la bellezza, in realtà, alberga in casa d’altri. (redazione@corrierecal.it)

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