LAMEZIA TERME «All’inizio del 2000 mi fecero rientrare in Massoneria in Calabria scegliendomi una delle Logge più carismatiche e più pulite che erano i Garibaldini d’Italia e che aveva sede a Vibo Valentia e non a caso, perché Vibo Valentia è indicato come un Oriente importantissimo, forse il più importante che c’è in Italia, sul potere decisionale di determinate logiche, chiamiamole così». Cosimo Virgiglio conosce bene la massoneria. Ne ha scalato i ranghi, partendo da apprendista ai tempi dell’università a Messina, per conoscere i vertici nazionali delle logge più importanti. Sono quei vertici a rimandarlo nella sua terra d’origine per gestire una fase complessa, che il pentito ha raccontato ai magistrati.
I suoi verbali sono stati depositati nei processi che hanno segnato e segnano la recente storia giudiziaria della Calabria. In ‘Ndrangheta stragista ha offerto un contributo importante per ricostruire il contesto in cui è maturata la strategia eversiva delle mafie. A Rinascita Scott l’esordio del suo interrogatorio del 9 marzo scorso (ve lo abbiamo raccontato qui) serve per mettere nella giusta prospettiva il peso degli ambienti massonici della provincia di Vibo Valentia: sono tra i più potenti d’Italia. Il documento integrale offre spunti, ovviamente da passare al vaglio del dibattimento, su una fase cruciale della recente storia della Calabria.
A Roma, Virgiglio si relaziona soprattutto con Giacomo Maria Ugolini, che «era già stato ambasciatore in Egitto e in Etiopia» e «all’epoca era poi divenuto decano di tutti gli ambasciatori. Lui era il gotha, definiamolo così» e «aveva grossi rapporti con la Calabria, principalmente con Vibo e Crotone, anche Reggio». E Virgiglio, come sua persona di fiducia, viene rimandato nel profondo Sud per gestire relazioni delicatissime. I suoi racconti, per i quali sono necessari i riscontri del caso, descrivono la Calabria come l’epicentro di molte trame. E le sue logge come crocevia di rapporti delicatissimi.
Non a caso arriva a Vibo, dove in breve diventa Gran Maestro. Il simbolismo è (quasi) tutto nella massoneria. È grazie ai simboli che il lignaggio massonico di quelle logge è di alto livello. A Vibo «vi era stato il passaggio, nel mio Tempio, di Giuseppe Garibaldi». Quel passaggio «lasciò dei cimeli, lasciò una bandiera dei Garibaldini ancora intrisa di sangue e ancora oggi custodita, un obolo, un Maglietto fatto da un pezzo di legno e all’epoca lasciò anche delle… i cosiddetti testamenti massonici». Simboli, certo. Ma anche affari. Perché – «collochiamo il periodo di cui noi stiamo parlando», va al sodo il pentito – «era un periodo di fermento, perché su Gioia Tauro stavano arrivando tanti, e sono poi arrivati, tantissimi soldini». E quei denari andavano gestiti, «si dovevano gestire gli aspetti politici, che poi sarebbero stati importanti per gestire quelli sanitari, si parlava della costruzione tra l’altro di un grande, di un grosso polo clinico». Tutto si tiene: soldi, sanità e politica in un cliché consolidato.
Non è tutto. Altri poteri interessano a quello massonico. Forse anche più della politica. Da gestire c’erano anche «i magistrati, perché dalla famosa tornata del 1993 che fu fatta a Capo Verde si decise che i Magistrati non dovevano mai più entrare in Massoneria, perché poco affidabili, ma ci doveva essere chi doveva gestirli e quindi era la grande flotta dei nostri avvocati che avevamo tra le fila». Sono frequenti i riferimenti del collaboratore di giustizia alla «tornata di Capo Verde del 1993». Virgiglio parla di una riunione dei più alti livelli della massoneria, che si sarebbe tenuta a Santiago di Capo Verde in un momento molto delicato della storia d’Italia. «Era partita Tangentopoli – racconta –, c’erano state le famose stragi in Sicilia, era ingestibile una situazione sia politica che mafiosa». E allora «si presero una serie di decisioni» come quella, proposta dall’armatore partenopeo «Elio Matacena» di chiudere le porte alle toghe: «In Italia non ci sarebbero stati più gli ingressi neanche “sussurrati all’orecchio” di magistrati, quelli che c’erano rimanevano fino alla loro, alla loro volontà, quindi fino alla loro esistenza in vita rimanevano, ma altri no». È la massoneria, secondo la lettura che dà il pentito, a non fidarsi: «”Ci possono essere – perché all’interno si parla così (Virgiglio riporta pezzi di conversazioni, ndr) – ci possono dei Magistrati che a volte usano il proprio potere in maniera recondita, e quindi noi dobbiamo aiutare il fratello che ha dei problemi in maniera che lui ritorni sulla retta via”. E quindi furono incaricati, dice: “Allora, dobbiamo incaricare chi è vicino, chi è stato compagno di studi, chi si incontra tutti i giorni”, quindi gli Avvocati dovevano essere coloro i quali entravano in contatto e vedere se il Magistrato era disposto o meno a dare degli aiuti».
Quando parla di “sussurrati all’orecchio”, il pentito si riferisce a «personaggi che hanno una carica istituzionale o politica o proprio, ecco, autorità giudiziaria, o esposti insomma in maniera diversa» e «preferiscono non comparire nel listato ufficiale che la legge in Italia ti impone». In alcuni casi, il “sussurrato all’orecchio” «non è altro che una persona tipo un Magistrato, un Agente delle Dogane, un Finanziere, un Agente dell’Esercito, un qualcuno insomma che è esposto anche politicamente». In questo caso, a sapere dell’appartenenza massonica è soltanto il Gran Maestro.
C’è un’altra categoria di massoni “coperti”: sono i “Sacrati sulla Spada”, cioè «coloro che hanno problemi di giustizia che, per il Maestro Venerabile, sono stati errori giudiziari». Il pm Antonio De Berardo incalza: «Si riferisce anche ad appartenenti alla criminalità organizzata?». «Sì, sì – risponde Virgiglio – per quel che mi consta sì, tant’è che Luigi Sorridente, il nipote prediletto del capo ‘ndrangheta di Gioia Tauro Peppino Piromalli era un appartenente proprio al Sacrato sulla Spada e come lui anche altri soggetti». È qui che l’interrogatorio si addentra negli angoli bui delle logge coperte, quelle che «non venivano riportate in nessun archivio, in nessun registro. (…) Su Reggio Calabria, cioè sul Tirreno, ce n’era una che era la nostra, proprio iniziata dal Principe Alliata e da Giacomo Maria Ugolini era, avevamo trovato come Oriente quello di Rizziconi e ne ho parlato abbondantemente in altri Procedimenti. Su Catanzaro, Crotone, Vibo avevamo la “Pitagora”; su Tropea avevamo “Amor di Patria” 1784, che operava tra Tropea, Nicotera e Limbadi. Queste erano le nostre, cioè erano le… quelle calabresi». Nel Vibonese, i “Sacrati sulla Spada” «venivano convogliati principalmente» nella loggia di Tropea. I «Garibaldini», continua Virgiglio, ne avevano chiesto la chiusura con decreto, «cosa che non era mai avvenuta». Il guaio era che l’esistenza di quella loggia era diventata (quasi) di dominio pubblico e «poteva innescarsi un altro Agostino Cordova e non era il caso, non ne avevamo bisogno noi di determinati soggetti presenti all’interno e anche perché, come ho detto in altri Procedimenti, non era mai stata la ‘Ndrangheta a andare a trovare né la Massoneria e né il politico in quel periodo, ma era viceversa, quindi a che pro mettere determinati soggetti quando tu ce l’hai sempre nelle mani?».
In quel contesto, fatto di intrecci tra logge ufficiali e coperte, di affari da monitorare e magistrati da gestire, Virgiglio torna in Calabria per osservare quella che descrive come una prova di forza della massoneria a Vibo. «Il momento più scottante – sottolinea – fu quell’agosto del 2004 quando il dottore Petrolo, quindi in questi casi il Maestro Venerabile Petrolo della Loggia Morelli» organizza «una premiazione, una borsa di studio cosiddetta “Tedeschi” e che era intitolata a un ragazzo che era morto per una brutta malattia, era un premio che lui voleva dare ai neolaureati di Messina di Medicina». In realtà «era la scusa per far scendere Gustavo Raffi, il capo del Goi (Grande Oriente d’Italia, ndr), in questi casi il Gran Maestro del Goi, a Vibo Valentia e quindi rendere, cioè ostentare quello che era il vero potere».
Ogni loggia tira fuori «i propri assi e noi facemmo arrivare direttamente Giacomo Maria Ugolini e ci fu questa grande… fu pubblica, tant’è che Petrolo invitò a livello pubblico Elio Costa, che era già sindaco; poi invitò Bruni che era il presidente della Provincia, invitò insomma una serie di personaggi proprio pubblici proprio a sfidare, per dire: “Noi non abbiamo paura di nessuno, abbiamo tutti. Abbiamo la Magistratura, abbiamo il politico“, questo era l’obiettivo e lo fecero al Resort, fu una cosa pubblica, quindi non stiamo dicendo nulla di nuovo». Ci sarebbe stato, però, anche un lato privato, un dietro le quinte dell’evento: «In realtà il giorno prima lì andarono a spartire quelli che erano i prossimi poteri, quindi le elezioni governative, le elezioni regionali, i posti di potere e i posti pure principalmente della Port Authority di Gioia Tauro. Arrivò Cassodonte da Soverato, fece il suo portafoglio di nomi e lì ci fu, ecco, questa era la situazione che io trovai a Vibo in quel periodo». (p.petrasso@corrierecal.it)
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