REGGIO CALABRIA «Pagare il pizzo per aprire un esercizio commerciale in un territorio in cui ad altri non sarà più consentito farlo liberamente, perché c’è già un imprenditore “di riferimento” di quella cosca, significa beneficiare di un inquinamento della libera concorrenza». Così il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, in un’intervista rilasciata ad Avvenire, che racchiude i principi che hanno animato il lavoro della Dda fino a giungere alle ultime, importanti operazioni. Da “Nuovo Corso” alla recentissima “Handover”-“Pecunia Olet”, gli inquirenti hanno portato alla luce interi compartimenti economici ostaggio delle dinamiche estorsive imposte dalla criminalità organizzata. Dall’altro lato, va rimarcato però l’elemento positivo della storia: il lavoro delle procure trae impulso dalla collaborazione dei pentiti (in aumento nell’ultimo periodo) e dal crescente numero di denunce provenienti da imprenditori che decidono di rompere le catene della vessazione mafiosa.
Un punto di partenza, più che di arrivo. «Un imprenditore da solo che denuncia è un obiettivo. – dice Bombardieri – cento diventano un martello contro la criminalità organizzata. Qualche imprenditore ha denunciato e ci ha consentito di intervenire, ma devono comprendere che è una scelta obbligata, che nasce anche dal pericolo di venire risucchiati in un coinvolgimento criminale». La denuncia, a detta del capo dell’Ufficio requirente reggino, è dunque il discrimine tra l’essere imprenditore e vittima. Questo, a patto che il soggetto non scelga di “saltare il fosso”, divenendo “colluso”: «Ci si avvantaggia. L’esperienza giudiziaria ci dice che se, ad esempio, nella zona di Santa Caterina di Reggio Calabria opera una ditta che è vicina, perché paga il pizzo, alla cosca di quell’area, gli altri se provano aprire un esercizio commerciale di pari natura nella stessa zona, saranno minacciati. Si acquisisce una sorta di esclusiva che fa passare da vittima a beneficiario di quell’attenzione mafiosa. Spesso l’impresa che viene inizialmente taglieggiata, finisce col diventare referente di quella cosca. Abbiamo avuto degli esempi in cui la cosca, quando questa impresa “protetta” andava a lavorare in altre zone, controllate da un’altra “famiglia”, patteggiava per loro la determinazione del pizzo da pagare. Addirittura andavano a dire “non ti preoccupare, ci penso io”».
In questo risveglio delle coscienze, dice il procuratore, ruolo importante possono svolgere le associazioni di categoria, facendosi «portatori degli interessi di questo ambiente».
L’evoluzione dei mercati e le nuove forme di investimento dimostrano come la ‘ndrangheta cresca adattandosi ai cambiamenti socio-economici pur mantenendo dei capisaldi, come il traffico di stupefacenti, che rimane il suo «core business». Cruciale in tal senso è il ruolo dei professionisti: «Alcune volte, proprio per le loro competenze, gestiscono direttamente gli affari e organizzano quel tipo di business». Esempio pratico si è avuto proprio nell’ultima inchiesta della Dda reggina, dove un commercialista non soltanto si limitava ad essere braccio contabile della consorteria, ma quale «membro organico» mediava per appianare gli screzi interni al gruppo, intervenendo in prima persona anche laddove ci fosse da riscuotere proventi estorsivi.
Circostanze che mettono un po’ di apprensione se si pensa alla quantità di finanziamenti che dovrebbero piovere sul paese. «L’esperienza ci insegna che dove ci sono i soldi, ci sono gli interessi e gli appetiti della criminalità organizzata. L’importante è tenere alta l’attenzione per monitorare questi flussi di finanziamento». Qui l’intervista completa.
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