REGGIO CALABRIA Tre pietre miliari investigative. Tre passaggi fotografati in sentenza per confermare la natura unitaria della ‘ndrangheta e dare forma alle sue stratificazioni.
Il ragionamento dei giudici del processo Gotha tocca 50 anni di evoluzione del fenomeno mafioso e offre spunti per individuare punti di passaggio e di approdo. Dal summit di Montalto, con i primi tentativi di contatto tra i clan e la destra eversiva, fino al concreto sviluppo di una strategia di doppia copertura, interna ed esterna, per preservare l’organizzazione dai colpi della magistratura. È un compendio utile a capire, per citare il titolo di un volume di Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di ‘ndrangheta.
Le istantanee investigative sono distribuite nell’arco di sei anni, tra il 2007 e il 2013. Abbracciano la Locride, la città di Reggio Calabria e il versante tirrenico delle alleanze criminali tra il Vibonese e la Piana di Gioia Tauro. Arrivano da tre intercettazioni e dalla voce di personaggi che, per i magistrati antimafia, occupano posizioni di vertice nelle cosche. Il “professore” Sebastiano Altomonte, Filippo Chirico, uomo di ‘ndrangheta legato al clan De Stefano, e Pantaleone Mancuso, boss del casato mafioso di Limbadi descrivono la “nuova” ‘ndrangheta. A partire dai suoi punti ciechi.
La ‘ndrangheta degli “invisibili” è nata a metà degli anni 2000, dopo l’uccisione del consigliere regionale Domenico Fortugno. Da allora, per i giudici, l’organizzazione criminale si sarebbe dotata «di un organismo di vertice riservato (e quindi “invisibile” alla stragrande maggioranza degli stessi partecipi dell’organizzazione), composto da pochissimi membri (in numero di sei-sette)» che «assumono decisioni strategiche per il mantenimento in vita dell’organizzazione e si interfacciano con la “Provincia”», cioè l’«organo deputato a garantire il mantenimento degli equilibri generali e l’applicazione delle regole di vita di ‘ndrangheta». L’esistenza di questo «ristretto gruppo di membri apicali» è «sconosciuta alla “base” del sodalizio». Un organismo che sarebbe composto «di un numero di membri non superiore a sei-sette» e opererebbe «attraverso moduli organizzativi in tutto simili a quelli tradizionalmente propri delle logge massoniche segrete (o “coperte”), di cui spesso (ma non necessariemente) i membri fanno anche parte.
È Altomonte, condannato in via definitiva come uno dei capi della ‘ndrangheta a Bova Marina, a offrire un termine di riferimento temporale per la nascita di questa struttura: «L’invisibile – dice in una intercettazione del 27 novembre 2011 – è nata da un paio d’anni». Che la si chiami “Santa” o “super associazione”, l’ipotesi dell’esistenza di un struttura segreta con rituali di affiliazione di tipo massonico compare negli ultimi trent’anni di indagini antimafia.
Già nel 1991, l’accusa del processo Olimpia ipotizzava la creazione di «un organismo decisionale verticistico all’interno dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nuova”, avente il compito di assumere le decisioni più importanti». La tesi – seppure confortata dalle dichiarazioni di pentiti come Gaetano Costa, tra i primi a riferire della “società di Santa” e dello scontro tra clan della vecchia e nuova guardia per il passaggio alla “Cosa nuova” con le sue aderenze massoniche – non troverà riscontro all’esito dei tre gradi di giudizio. Nel corso degli anni, però, le evidenze investigative sull’esistenza della Santa e sui legami tra ‘ndrangheta e massoneria deviata aumentano.
Venti anni dopo quella prima ipotesi, la prospettiva si ribalta all’interno di un casale nelle campagne di Limbadi. È il 7 ottobre 2011 quando le cimici degli investigatori captano – nell’inchiesta Purgatorio – uno dei tre colloqui chiave citati nella sentenza Gotha. Il boss Pantaleone Mancuso traccia il nuovo profilo della geopolitica criminale: «La ‘ndrangheta non esiste più – dice –. Una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, c’era la ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta fa parte della massoneria, diciamo. È sotto la massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose. Ora cosa c’è più? Ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta». La “vecchia” ‘ndrangheta è roba da «poveracci» e «zappatori». Perché «bisogna modernizzarsi. Non stare con le vecchie regole. Il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose. Oggi la chiamiamo massoneria… domani la chiamiamo P4, P6, P9».
“Zio Luni” parla per il clan Mancuso. Il “professore” Altomonte – intercettato nell’inchiesta Bellu Lavuru – è espressione delle cosche della Jonica (i Vadalà-Talia di Bova). Condannato a nove anni con sentenza definitiva, Altomonte sarebbe stato l’«anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonica reggina, tra i quali l’ex consigliere regionale Domenico Crea». Altomonte, componente della Gran Loggia Regolare d’Italia, sarebbe stato inserito in una “cupola”. È lui stesso a spiegarlo in una conversazione intercettata il 20 dicembre 2007, rivelando «l’esistenza di due componenti della ‘ndrangheta, la “visibile e l’invisibile”; la prima, indicava, “non conta”, mentre “noi altri”, per un totale di “cinque”, “siamo a quella invisibile”».
Quella intercettazione mostra che «per una scelta di autotutela rispetto ad “attacchi esterni” (“se no oggi il mondo finiva: se no tutti cantavano”, dice Altomonte) gli appartenenti alle varie organizzazioni criminali, da un paio d’anni, hanno creato una sorta di struttura parallela occulta i cui aderenti vengono denominati gli “invisibili». Di questa struttura «non sono a conoscenza neanche i vari affiliati alle organizzazioni criminali, cosiddetti “visibili”». Altomonte amplia l’orizzonte all’intera Locride e spiega che nella “cupola” sarebbero presentia anche persone di Africo: «Gli africoti – dice – sono con noi… Oramai tutta la situazione di Bova è in mano con un discorso grosso metà a noi e metà agli africoti». Per i giudici di Gotha la lettura congiunta dei dialoghi di “Zio Luni” e del “professore” «offre plastica dimostrazione che le cosche di ‘ndrangheta del versante ionico (Vadalà-Talia di Rova) e quelle del versante tirrenico (Mancuso di Limbadi) sono espressione del medesimo processo evolutivo entro cui si muove l’associazione mafiosa calabrese unitariamente intesa». L’esistenza di una componente riservata è la conseguenze di una «esigenza di autoconservazione», un’autodifesa rispetto al fenomeno del pentitismo. «Se no tutti cantavano», dice Altomonte. Luni Mancuso, invece, fa riferimento a «giovanotti che vanno a ruota libera».
È ancora un “giovanotto” arrestato a Reggio Calabria e trovato in possesso di una formula di affiliazione, a dare il via a una conversazione – la terza pietra miliare investigativa – che offre lo spunto a completare il ragionamento del collegio giudicante. Filippo Chirico, esponente della cosca Libri, storicamente legata al clan De Stefano, il 24 luglio 2013 racconta alcune regole di ‘ndrangheta alla propria compagna. Specifica le cariche e poi allarga l’orizzonte: «Ci sono un sacco di cose, regionali, mondiali, queste non le sanno tutti, neanche loro le sapevano (…) Sono arrivati fino a un certo punto – dice riferendosi alle inchieste della magistratura –, poi, in effetti sapevano dell’Australia, America, Germania, le sanno queste cose ormai. Però – aggiunge – c’è un’altra cosa ancora che non la sanno neanche loro: qua a Reggio contano i sei, sette». E completa: «De Stefano gliel’ha imposta la questione, sei, sette. Il coso è di sette». Per i giudici è un altro riferimento alla ‘ndrangheta “invisibile”. Non è l’unico legame tra le parole di Chirico e la “Cosa Nuova”. In un’altra intercettazione, l’uomo riferisce a un amico per raccontargli che «non contiamo più niente». Il riferimento è all’attività di contrasto messa in campo dalla magistratura, riguardo alla quale c’è soltanto una contromisura: l’ingresso nella massoneria deviata, «i cui aderenti sono gli unici in grado di far “saltare” determinati sistemi di potere. «L’unica cosa che sto vedendo – dice – ma non sono riuscito a trovare la strada, però ho sparso la voce di… la massoneria».
Parole che riportano alla mente un altro pezzo di storia criminale che si inscrive nel cerchio tracciato dalle tre intercettazioni captate tra il 2007 e il 2013. Il 18 febbraio 2008 la Dda di Reggio Calabria mette a segno un colpo epocale con l’arresto di Paquale Condello, il Supremo. E trova nel suo covo un manoscritto scritto di suo pugno dal “capo dei capi”: «Lei da quando è venuto a Reg. Cal. e sono moltissimi anni A (ha, ndr) preso accordi con delle cosche favorendoli nei l’horo (loro, ndr) processi e questo e (è, ndr) sotto gli occhi di tutti. Lei da queste cosche a (ha, ndr) preso moltissimi soldi, e si è assunto l’onere di continuare la guerra con la sua penna a delle persone oneste. Lei non può indossare la toga per scopi personali, o solo per difendere dei traffici di droga e assassini. Solo perché le danno moltissimi soldi e combattere ingiustamente persone con le mani pulite. Tutto questo finirà». Assieme al riferimento scritto a una “toga sporca”, Condello al momento dell’arresto pronuncia una frase sibillina: «Se ne vedranno delle belle a Reggio Calabria perché si sono rotti determinati equilibri». Per i giudici di Gotha, il capoclan fa intendere «che gli “equilibri” fino ad allora esistenti non erano certo esclusivamente di carattere criminale, ma coinvolgevano, come dimostra il testo manoscritto sequestrato nel covo del Supremo, i rapporti tra poteri occulti e ambiti riservati della ‘ndrangheta». Rapporti che giustificano la nascita della Santa. Pensata come una “Cosa Nuova” per assicurare la sopravvivenza della ‘ndrangheta. O, meglio, di ciò che la ‘ndrangheta è diventata. (p.petrasso@corrierecal.it)
x
x