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La recensione

“Il custode delle parole” di Gioacchino Criaco (Feltrinelli)

Il sacro è potenza tremenda (tremendum), mistero inattingibile (mysterium), attrazione fatale (fascinans): così avverte lo storico delle religioni Rudolph Otto in un suo storico libro interamente …

Pubblicato il: 30/06/2022 – 9:33
di Francesco Bevilacqua*
“Il custode delle parole” di Gioacchino Criaco (Feltrinelli)

Il sacro è potenza tremenda (tremendum), mistero inattingibile (mysterium), attrazione fatale (fascinans): così avverte lo storico delle religioni Rudolph Otto in un suo storico libro interamente dedicato a tale argomento. Ora, anche i “luoghi identitari, storici e relazionali” – come li definisce l’antropologo Marc Augé per distinguerli dai “non-luoghi” – sono sacri. Perché ogni luogo è il centro del mondo (secondo la tesi di un altro storico delle religioni, Mircea Eliade), cuore pulsante del mondo di ciascuno di noi, la patria della nostra interiorità, scenografia della nostra ricerca di senso, geografia dell’essere nel mondo con responsabilità e cura, come direbbe il grande filosofo Martin Heidegger. Per via della loro “separatezza” da tutto ciò che è profano (come ci indica la radice latina “sacer”), i luoghi erano percepiti dagli “antichi” come (s)oggetti di timore, venerazione, culto, rispetto e, soprattutto, devozione, un vocabolo che racchiude tutti gli altri. Nessun “antico” avrebbe mai pensato di profanare il sacro e neppure i luoghi che il sacro incarnano. Poca cosa rimane, di quella antica devozione, in ciò che gli ultimi “credenti” dell’età post-moderna provano per i simboli delle loro religioni: miti, che sono racconti fondativi delle comunità, e riti, che sono ripetizioni di miti. Perché viviamo in una società desacralizzata, in cui la scienza, la tecnica e l’economia si sono fatte religioni, pretendono un’adesione fideistica dai suoi adepti, permeano di sé il pensiero dell’uomo “moderno” o “post-moderno” che dir si voglia.

Ecco, il nuovo romanzo di Gioacchino Criaco, “Il custode delle parole” appena edito da Feltrinelli (pp. 200, € 17,00), è una storia incentrata su questa semplice, disarmante, commossa aspirazione: rendiamo sacri i nostri luoghi, rivolgiamo loro la nostra devozione … se davvero vogliamo trovare il bandolo delle nostre vite. Il tutto con diverse implicazioni: amore, accoglienza, disvelamento di culture millenarie, responsabilità, resilienza, cura, erotismo, ribellione, identità e alterità, cosmopolitismo e provincialismo come li intendeva l’antropologo Ernesto De Martino quando diceva che per essere cosmopoliti occorre avere un villaggio vivente nella memoria.

Quello di Criaco è un libro permeato da un’atmosfera onirica, a volte mistica, ma anche da semplicità e sobrietà e perfino dal profumo di buon cibo. Insomma, un libro “generoso”, in cui l’autore si è speso con tutto se stesso, in cui ha trasfuso tutte le sue conoscenze, tutti gli aneddoti, tutte le suggestioni che egli ha appreso in tanti anni di frequentazione del suo luogo dell’anima, l’Aspromonte. Un romanzo che avrebbe potuto produrre cinque, dieci, venti romanzi. Un romanzo bello anche nella scrittura, organizzata con l’io narrante del protagonista, al presente, per renderla ancor più viva ed immediata, con un sapiente alternarsi di dialoghi e azioni, coincidenze, colpi di scena, svelamenti inattesi. Un romanzo che ha un piglio corale ma anche intimista, una valenza individuale ma anche politica. Un romanzo, insomma, che – preconizzo – avrà successo: perché racconta una terra e un popolo misconosciuti, perché è esso stesso quella terra e quel popolo.

Criaco – già noto al grande pubblico per gli altri suoi romanzi, fra cui “Anime Nere” (Rubbettino), da cui il film omonimo di Francesco Muzzi, vincitore di nove “David di Donatello”, tre “Nastri d’argento e molti altri premi” – questa apologia del sacro e della devozione, in un tempo pieno di profanazione e disprezzo, non la dipana con la presunzione del saggista ma con l’umiltà del romanziere, che vuole emozionare il lettore non indottrinarlo. Con tutte le conseguenze in termini di libertà espressiva, di licenze poetiche, di trasfigurazioni della realtà.
Custode delle parole è, nel romanzo, il vecchio Andrìa (che nell’antica lingua dei greci di Calabria significa “uomo appassionato”), un moderno Laerte, che si ritira a vivere in montagna con il suo gregge di pecore, un folle, un posseduto dalla “mania”, la pazzia che viene dagli dei – come raccontava Socrate nel Fedro – e per questo è migliore della temperanza, che invece viene dagli uomini – un anti-moderno, un visionario, un uomo dotato di poteri oracolari. Andrìa-Laerte ha un figlio, Andrìa-Ulisse, che non è mai tornato dalla sua odissea in Africa, per lavoro; ha un padre, Andrìa-Acrisio (padre di Laerte nell’Odissea), che in Africa era andato in tempo di guerra lasciando anche lì il suo seme; ed ha un nipote, Andrìa-Telemaco, che attende vanamente il ritorno del padre e intanto ha come punto di riferimento il nonno, da cui ha ricevuto il nome. Andrìa nonno è, infatti, colui che incarna il luogo, il genius loci, lo spirito del luogo dell’Aspromonte.

Andrìa nonno è colui che conserva le parole adatte a capire quel mondo arcaico, selvatico, contraddittorio, frainteso. Andrìa nonno pensa nella lingua dei padri, gli ellenofoni di Calabria, relitti etnici dell’antico popolo che un tempo viveva nelle selve della grande montagna e che oggi è relegato a pochi villaggi sparsi nella vallata della Fiumara Amendolea: la minoranza linguistica più ignorata e bistrattata d’Europa, alla quale, pian piano, i governi hanno sottratto la lingua, distrutto la cultura, tolto i servizi essenziali, svuotato i paesi. Quello degli ellenofoni di Calabria è un linguaggio che proviene dai Greci che verso l’VIII secolo a.C. colonizzarono la costa orientale della regione, fondandovi grandi e famose città della Magna Grecia, e passa per i Bizantini, che la tennero a lungo dopo i Romani e fino ai Normanni.

Una lingua fatta di parole dimenticate, che evocano significati ormai sconosciuti ai più. Come capita, ad esempio, con il più evocativo dei toponimi locali, quell’ “Aspromonte” che per tutti è “monte aspro” (quindi ostile, terrifico, escludente) mentre per i greci era “monte lucente” (quindi amico, protettivo, accogliente). O come “Kerrya” o “Mana gi” – come qualche anziano ancora chiama la divinità custode dell’Aspromonte -, ossia “Grande madre”, in assonanza con la divinità femminile primeva del Mediterraneo orientale, colei che venne prima degli dei olimpici e che anzi, come nella Gea della Teogonia di Ovidio, tutti li partorì essendo ella nata per partenogenesi, ossia autofecondandosi. O come in “Egò gapào”, la frase usata dagli ellenofoni per esprimere amore alla propria compagna o al proprio compagno, che suona come “io mi perdo in te, io ti affido la mia anima”. Se queste sono le parole perdute, dice Andrìa vecchio, le relazioni fra gli uomini e i luoghi e quelle fra gli uomini stessi sono altra cosa rispetto alla fama sinistra, ai pregiudizi, agli stereotipi che hanno avvolto l’Aspromonte come in un sudario. Occorre custodirle e ritrovarle, quelle parole, per pacificare il proprio animo e tornare ad amare luoghi, paesaggi, comunità, per costruire il futuro partendo da una storia che tutti devono imparare e narrare.

Ma Andrìa giovane non ha ancora accolto dentro di sé l’insegnamento del nonno di cui reca il nome, quasi come uno stigma, come una maledizione che potrebbe portarlo a ripudiare l’Aspromonte, come altri ripudiano tutti i sud del Mediterraneo e del mondo – di cui l’Aspromonte è paradigma geografico ed esistenziale -. Senonché sulla costa jonica che si estende ai piedi della grande montagna calabrese, fa naufragio un barcone di migranti, e Andrìa, con la fidanzata Caterina, salva dai flutti Yidir, un giovane berbero che fugge dal deserto libico. Andrìa vecchio prende con sé Yidir come aiutante nel suo stazzo fra le montagne. Ed è proprio il forestiero accolto nel seno della montagna dal “custode delle parole” che contribuisce a ristabilisce, con un sottile gioco psicologico – il contatto profondo fra i due Andrìa, aiutato, in questo, da Caterina, a sua volta fuggiasca, ma dalla Francia dove era emigrata la sua famiglia e che le era parsa tanto estranea. Da brava quattrocentometrista a ostacoli, Caterina è l’incarnazione, insieme alla mamma ed alla nonna di Andrìa, della donna che resiste, che intuisce, che sa. È in fondo la prosecuzione ideale della Dea Madre, una moderna Demetra, che riconnette gli uomini con la natura e con la vita, il desiderio di vivere. Contro l’indolenza, l’inanità, l’immobilismo.

Di qui in avanti si dipana una storia che è realtà e fiaba nello stesso tempo. Con la partenza di Yidir per la Francia, alla ricerca di qualcuno che costruisca un pozzo nell’oasi del deserto libico dove vive la sua famiglia, prende l’abbrivio di un’altra piccola odissea che condurrà Andrìa e Caterina prima in Europa e poi in Africa sulle tracce di Yidir, che sembra essere scomparso nel nulla. I due, forti di una notevole somma di denaro donata loro dal nonno, trovano una ditta che potrebbe costruire il pozzo e giungono all’oasi libica dove Yidir è riuscito a tornare e dove vive suo nonno, straordinariamente somigliante a nonno Andrìa. Non dirò di quest’ultima, sorprendete parte della storia, che tuttavia riporta a casa Andrìa e Caterina, dopo aver fatto costruire a loro spese il pozzo. Altri eventi accadono in Aspromonte, che convincono Andrìa e Caterina a lasciare il lavoro precario al call center per abbracciare la filosofia e la vita del custode delle parole ed a riconciliarsi con la propria terra. “Glielo sussurro in un orecchio, al nonno – dice Andrìa alla fine del romanzo -: hai ragione, vecchio, il destino non esiste se tu sai essere la tua storia. E io adesso lo so chi sono: sono Anrìa Ameroto, della stirpe dei piciari che chiedevano la pece ai pini larici rivestiti dalla grazia divina, nipote di Andrìa Ameròto che da solo era tutto un esercito di liberazione, figlio del libeccio berbero e dell’Asprovunì, la Grande Madre Bianca”.
Il “Custode delle parole” è dunque un romanzo che non solo affabula ma offre anche una via d’uscita dall’amnesia dei luoghi, dal coma topografico che ha infettato, come una pandemia, gli uomini e le donne dei sud del mondo. È un antidoto al complesso psicoanalitico di inferiorità della civiltà contadina del Sud Italia rispetto a quella industriale del Nord che, che intravidero Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Berto. È una storia fantastica ma anche reale che ci riporta a casa, nella nostra terra, nel seno della Grande Madre. E che, con coraggio, ci offre la chiave per spalancare le porte del futuro.
*avvocato e scrittore

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