COSENZA C’è un’anomalia forte tra redditi e consumi di beni durevoli registrati in Calabria. Una spia che denota quanta alta possa essere l’incidenza del sommerso sul reale stato dell’economia complessiva della regione. Un mondo di attività “non osservate” che finisce per colpire pesantemente l’economia sana con effetti devastanti sul sistema della redistribuzione della ricchezza, sulla corretta dinamica del mercato del lavoro nonché sulla sicurezza stessa dei lavoratori.
Un mondo “oscuro” costituito da realtà operative ma sconosciute al fisco e ai controlli, ma anche da attività e lavori illegali. Queste ultime in mano soprattutto alla criminalità organizzata che in Calabria spadroneggia. Una galassia opaca capace di generare un enorme patrimonio che però sfugge ai dati ufficiali sulla ricchezza prodotta dalla regione. Nonostante abbia un peso non trascurabile.
In Italia, secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, l’economia non osservata nel 2019 vale 203 miliardi di euro, ben l’11,3% del Pil nazionale. Mentre la componente sommersa ne pesa poco più di 183 miliardi a cui si aggiungono gli oltre 19 miliardi proventi delle attività illegali.
Mentre, sempre stimando questa zona grigia dell’economia, l’Istituto nazionale di statistica valuta in 3 milioni 586mila le unità lavorative irregolari nel Paese.
E la Calabria di questo “teatro oscuro” recita un ruolo non certamente da comparsa anzi. Rappresenta uno degli attori principali.
Visto che è la regione in cui il peso dell’economia non osservata è il più alto d’Italia. Con incidenza elevata di lavoro irregolare e presenza massiccia di attività criminali. Nonché un’alta tendenza ad evadere tasse nazionali ed imposte locali che la fa salire sul podio più alto della classifica nazionale. Dati ai quali fa da contraltare la discrepanza che si registra tra redditi pro capite (i meno alti d’Italia) e l’acquisto di beni durevoli in cui nell’ultimo scorcio di tempo monitorato la Calabria è ben al di sopra della media nazionale.
Numeri e dati che delineano quel mondo opaco che caratterizza una parte consistente dell’economia reale calabrese.
Scorrendo i dati forniti dall’Istat, emerge che la Calabria è in vetta alla classifica per peso specifico dell’economia non osservata sul valore aggiunto complessivo. Ben oltre un quinto, esattamente il 21,3%. Molto lontano dalla Provincia autonoma di Bolzano, territorio in cui si registra un’incidenza di appena l’8,4%. In termini aggregati, il valore del sommerso in Calabria ammonterebbe a circa 7 miliardi di euro, a fronte dei 203 miliardi nell’economia italiana con una percentuale pari all’11% in termini relativi.
E la regione brilla in questo anche per il peso del lavoro irregolare. Ben il 9,8% del valore aggiunto contro il 3,6% della Lombardia e il 3,7% del Veneto. L’ultima rilevazione della Cgia di Mestre calcola in 131.700 lavoratori irregolari presenti in Calabria. Un dato mai così alto in altre regioni.
Osservando poi in dettaglio la “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva anno 2021” del ministero delle Finanze, fotografa altri record poco edificanti che riguardano la Calabria. Infatti ha l’indicatore più alto del Paese del tax gap dell’Imu: 42,3% del gettito teorico. Così come del tax gap della Tasi: 40,9% del gettito teorico.
E sempre su questo fronte, secondo le stime della Cgia di Mestre, la mole di sommerso avrebbe generato 3,3 miliardi di imposte evase. Praticamente ogni 100 euro di tasse versate dai contribuenti calabresi, 24,5 euro sarebbero sfuggite al fisco.
Indicatori che dimostrano complessivamente la capillarità del fenomeno evasivo in Calabria. L’incidenza dell’economia prodotta dal sommerso sul totale regionale, stando ai dati del 2020, ammonta al 9,2 per cento (in termini assoluti il valore aggiunto da lavoro irregolare è pari a 2,7 miliardi di euro).
E le anomalie di un’economia tutta da interpretare non si limitano a questo. La Calabria da tempo è in fondo alla classifica per redditi prodotti e ricchezza tra la popolazione. Leggendo le ultime elaborazioni Prometeia che ha incrociato i dati Istat, Svimez e Istituto “Tagliacarne”, emerge che il reddito disponibile pro capite dei calabresi nel 2021 è stato pari a 14.465mila euro decisamente lontano dalla media nazionale di 20.349. Segnando una crescita pari al 5,1% rispetto all’anno precedente contro l’incremento medio nazionale del 5,7%. Ebbene nonostante questi numeri, la Calabria ha registrato nel corso del 2021 la crescita di spesa per beni durevoli più alta d’Italia.
Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio dei Consumi Findomestic, realizzato in collaborazione con Prometeia, lo scorso anno la regione ha segnato il record d’impennata per l’acquisto di beni: pari a +17,6%. In media in Italia quell’incremento è stato mediamente del 13,6%. In termini assoluti ha significato 1,633 miliardi. Ed è stato record assoluto per l’acquisto di auto nuove: ben il 20,8% in più rispetto all’anno precedente contro la media del 6,5%, con Vibo Valentia, Crotone, Cosenza e Catanzaro fra le prime 9 province in Italia. Così come per l’acquisto di motociclette (+40,1% contro la media del 23,6%) anche qui con due province – Vibo e Crotone – tra le prime sette in Italia. In crescita record anche per la telefonia (+16,3% contro +9,3% medio italiano), auto usate (+13,2% contro il +12,7%) ed elettrodomestici (+19,5% contro il +6,7%). Indicatori non solo della ripresa economica, ma soprattutto spie di una anomala contraddizione tra redditi detenuti e propensione ai consumi.
«Un’economia meno fragile è anche meno propensa a nascondere fatturati, costi e lavoratori». È la ricetta che Domenico Cersosimo professore ordinario di Economia applicata dell’Università della Calabria, dove insegna Economia regionale e Valutazione economica delle politiche, indica per far uscire la Calabria dal cono d’ombra dell’economia sommersa. Una condizione quest’ultima che, secondo il docente dell’ Unical, rappresenta «una connotazione strutturale della Calabria» e che genera effetti distorsivi sul sistema impositivo con elevata evasione fiscale, ma soprattutto sul fronte delle implicazioni sociali e culturali. In altre parole «assuefazione all’illegalità».
Professore gli ultimi dati dell’Istat confermano che la Calabria è la regione dove pesa di più l’economia non osservata. Da cosa dipende questa peculiarità?
«L’alta incidenza dell’economia non osservata è una connotazione strutturale della Calabria. Le spiegazioni sono diverse. La prima, e più importante, è legata alla fragilità endemica della struttura produttiva regionale e all’informalità di svariate attività economico-imprenditoriali nel campo dei servizi e della produzione. Assetti dominati da imprese polverizzate e dall’assenza di aziende di medie e grandi dimensioni sono di per sé altamente permeabili al sommerso. Conta molto anche la composizione settoriale: in Calabria sono comparativamente più importanti, comparti fisiologicamente più esposti all’affondamento di redditi e dell’ occupazione, come l’edilizia, il turismo, l’agricoltura, la distribuzione commerciale, le attività professionali autonome, i servizi alle persone e alle famiglie, le attività labour intensive. Comparti accomunati da una spinta destrutturazione organizzativa, da stagionalità e aleatorietà. Inoltre, incide il peso più denso nella nostra regione dell’economia criminale e mafiosa, delle attività illegali nel sommerso profondo. Più contenuto è invece il sommerso nell’industria manifatturiera, dove non solo è più difficile occultare dichiarazioni e costi a ragione della fitta interconnessione funzionale tra le imprese, ma anche perché ben più diffusa, per ragioni storiche, è la cultura della legalità».
Cosa comporta questo fenomeno per l’economia complessiva della regione?
«Sul piano strettamente economico implica innanzitutto una elevata evasione fiscale. La sotto-fatturazione, che è la componente più rilevante dell’economia non osservata anche in Calabria, comprime i fatturati nominali e, di conseguenza, abbassa la base imponibile. La Cgia di Mestre ha stimato che l’evasione fiscale in Calabria sia pari a oltre 3,3 miliardi all’anno. Sul piano del mercato del lavoro, il sommerso alimenta bassi salari, sfruttamento patologico dei lavoratori, abbassamento delle tutele e della sicurezza sociale. L’alta incidenza del sommerso contribuisce anche a spiegare la forbice tra reddito e consumi: il reddito medio dei calabresi e all’incirca la metà di quello medio nazionale mentre la medesima incidenza riferita ai consumi, si attesta attorno al 70%. Ma altrettanto preoccupanti sono le implicazioni sociali e culturali. Vi è infatti una certa assuefazione collettiva a tollerare il sommerso e, soprattutto, la riproduzione di una vischiosità che avvolge gli scambi e le prestazioni economiche e professionali. Un’indeterminatezza nelle relazioni di mercato, il rafforzamento del senso comune di vivere in un’area deregolamentata, endemicamente altera alle regole e alla trasparenza delle interazioni, economiche e non».
Anche il mercato del lavoro calabrese risente del fenomeno. Quali sono le ripercussioni?
«Le ripercussioni sono pesantissime. I professionisti, gli imprenditori, i lavoratori autonomi che nascondono una parte del proprio lavoro beneficiano di un sovraprofitto legato all’evasione fiscale. Diversamente, i lavoratori dipendenti in nero involontario, in parte o in tutto, subiscono spesso una severa limitazione delle retribuzioni e dei diritti contrattuali e assicurativi, ma anche marginali benefici fiscali. Esiste poi una piccola quota di lavoratori sommersi per volontà, quelli che per non rinunciare a sovvenzioni e sostegni di welfare sono “costretti” a nascondere le loro prestazioni lavorative, con il doppio vantaggio di cumulare redditi e sostegni formalmente incompatibili e di evadere il fisco. In questi casi, ma anche in diversi altri, si stabilisce una sorta di relazione collusiva tra offerta e domanda di lavoro, spesso obtorto collo subita dal richiedente la prestazione».
Quanto pesa invece sul sommerso l’attività della criminalità organizzata?
«È difficile calcolare con certezza i volumi economici della criminalità organizzata. Nel dibattito pubblico volano cifre, spesso iperboliche, impressionistiche, sommarie. La verità è che non esiste né avremo mai un bilancio certo delle attività e dei fatturati della galassia delle economie criminali. Recenti lavori dei ricercatori della Banca d’Italia hanno stimato nel 2% del Pil nazionale il valore delle attività criminali, al netto dei proventi ottenuti attraverso l’infiltrazione nell’economia legale. Come è risaputo, non poche attività legali e alla “luce del sole” che fanno riferimento alla ‘ndrangheta, confluiscono nel calderone delle attività e del fatturato mafioso complessivo. I confini tra attività economiche criminali e legali sono sfumati, c’è osmosi e flussi continui, per cui non è facile ricostruire un quadro esaustivo e attendibile. Quello che è certo è che la criminalità muove circuiti economici rilevanti, delle vere proprie filiere di business di breve e di lunghissimo raggio, che impattano ovviamente sul livello del reddito regionale e dunque su consumi, occupazione, investimenti e, paradossalmente, sul benessere collettivo. Da qui la sottovalutazione istituzionale del fenomeno mafioso e nel contempo le sacche di consenso sociale verso le economie illegali».
In che modo ha inciso la pandemia sull’economia sommersa calabrese?
«In Calabria, come altrove, il lockdown prima e le altre limitazioni della mobilità umana e delle merci ha prosciugato interi settori e comparti tradizionalmente a più alta propensione al sommerso, si pensi agli esercizi commerciali al dettaglio, alla ristorazione, al turismo, ai servizi professionali, che hanno determinato un calo del peso del sommerso, testimoniato tra l’altro dalla forte caduta del Pil regionale. È interessante capire cosa succederà una volta superata la pandemia. L’onda della ripresa, come è noto, non farà alzare tutte le barche, al contrario molte affonderanno e tante altre iniziative saranno costrette a diventare “imprese-zombie”, a sprofondare cioè, per sopravvivere, nel limbo del sommerso-emerso, se non nel buco nero dell’economia a controllo criminale».
Quali strumenti mettere in campo per far uscire dal sommerso in Calabria questo genere di attività?
«La strada maestra resta quella del rafforzamento della struttura produttiva, del progressivo innalzamento delle dimensioni aziendali, della sofisticazione dei processi produttivi, dell’allargamento dei mercati di sbocco, della partecipazione delle imprese a reti produttive interconnesse. Un’economia meno fragile è anche un’economia meno propensa a nascondere fatturati, costi e lavoratori. Non a caso, nelle regioni italiane sviluppate il sommerso è da circa un decennio in sistematica contrazione e attestato ormai su livelli per così dire “fisiologici”, attorno al 5-8% del Pil. Poi c’è un grandissimo problema culturale di promozione e sostegno della legalità; fare impresa e lavorare in condizioni legali, emerse, è conveniente: i prestiti bancari sono più facili e fluidi, la reputazione del marchio più alta, l’affidabilità del professionista più elevata, senza trascurare i benefici di ordine più generale come la paura di essere scoperti e delle conseguenze correlate. Le organizzazioni imprenditoriali e professionali possono fare moltissimo in questa direzione. Progressivamente e in tempi adeguati, bonificare è possibile e vantaggioso per l’intera comunità regionale».
Cosa può fare la Regione per contrastare il fenomeno?
«Non credo possa fare molto. In astratto, servirebbero politiche e azioni rivolte a incentivare e sostenere le imprese più propense a fare salti dimensionali e di mercato, a rafforzare le proprie strutture organizzative, a migliorare processi e prodotti, a innovare, ad esportare. Servirebbero politiche selettive, non politiche indiscriminate, che invece continuano a dominare nelle strategie regionali; politiche per legare le imprese e gli investimenti e non per sostenere l’autoreferenzialità imprenditoriale; politiche per indurre cambiamento permanente nelle strategie d’azione delle imprese e non politiche compassionevoli rivolte a lenire piuttosto che a trasformare l’esistente. Sempre in astratto, la Regione potrebbe perseguire strategie di netta separazione tra politiche di sviluppo e politiche di sostegno al reddito, invece di oscillare e mischiare continuamente e camuffare assistenza, spesso doverosa e necessaria, con finalità di sviluppo e viceversa. La Regione, con riferimento alla vischiosità a cui ho accennato prima, è forse il problema non la soluzione». (r.desanto@corrierecal.it)
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