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“L’Arazzo algerino”, il dolore e la sofferenza del Sud nel giallo di Antonio Pagliuso

L’autore realizza un percorso narrativo che porta ad un epilogo inaspettato e che viene spinto da una sapiente costruzione interiore dei personaggi

Pubblicato il: 04/12/2022 – 9:00
di Antonio Chieffallo
“L’Arazzo algerino”, il dolore e la sofferenza del Sud nel giallo di Antonio Pagliuso

LAMEZIA TERME Antonio Pagliuso rappresenta una delle avanguardie culturali di questa regione nonostante la giovane età. Critico letterario, curatore della rivista Glicine, uno dei pochissimi esperimenti editoriali del settore, è da poco direttore artistico e uno degli ideatori della rassegna “Al Vaglio”: «lavoriamo per promuovere la letteratura e la cultura ma anche per far scoprire e riscoprire le bellezze architettoniche ed artistiche di Sambiase a Lamezia Terme. Sicuramente i vagli, luoghi peculiari ed affascinanti del nostro territorio, le chiese ed i palazzi». “L’Arazzo algerino” è il suo secondo libro: «se andiamo alla ricerca di una definizione io lo descriverei come giallo nostalgico perché all’interno del romanzo ci sono tutta una serie di piccole e grandi solitudini che vengono fagocitate nella vita sociale in una promiscuità misantropa, tipica dei piccoli paesi del Sud Italia, in cui emerge la vera maschera della diffidenza e della spietatezza». Antonio Pagliuso racconta, nella sua opera, le vicende della famiglia Lemoine che si trasferisce a Longadonna, un paese del nostro mezzogiorno. Gastone e Francoise, insieme ai loro due figli ed alla nonna Alizé, costituiscono una sorta di enclave francese nel piccolo paese. Partono da qui una serie di tratti peculiari del libro: la singolare emigrazione al contrario dei protagonisti, l’assenza di riferimenti temporali anche se si comprende l’ambientazione negli anni settanta, la volontà di non identificare un luogo preciso ma di trasformare Longadonna nella metafora dei paesi del Sud.
Il Giallo ha una trama avvincente che si accende quando viene scoperto l’omicidio della giovane Polina. L’autore realizza un percorso narrativo che porta ad un epilogo assolutamente inaspettato e che viene spinto da una sapiente costruzione interiore dei personaggi. Emergono Enzo, una delle tante vittime del romanzo, accusato di un delitto non commesso ed il commissario Ettore Meli, un uomo avvolto negli errori della sua vita che non appartiene «a quelle figure onniscienti che popolano l’immaginario collettivo».
Pagina dopo pagina vengono fuori il dolore, la sofferenza, le insane dinamiche paesane per poi arrivare ad un finale che tramortisce: «ho immaginato un giallo che lascia aperte varie parentesi ed ipotesi alla fantasia di ogni elettore. Una confessione conclusiva che non include la redenzione ma che smaschera il pregiudizio, certamente uno dei temi fondamentali del romanzo».
Antonio Pagliuso ha impiegato ben cinque anni per scrivere “L’arazzo algerino”, un tempo lungo che si comprende per l’estrema cura messa in ogni frase contenuta del libro. Una lettura coinvolgente che obbliga a riflettere su molte cose. Emblematica una delle frasi conclusive del giallo: «ci si può davvero abituare a tutto serve solo che la vita ci dia il tempo a sufficienza per farlo». Sia questo un bene o meno è quello che l’autore lascia ad altrui valutazione.

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