CERISANO «La mia passione per le tradizioni nasce sin da piccolo. Sono cresciuto con i miei nonni, in campagna, e ho seguito per anni le loro abitudini. Passavo le giornate ad osservarli, soprattutto mio nonno materno, Luigi, che era un cestaio». Andrea Perrotta è uno studioso cosentino poco più che trentenne e, proprio come suo nonno, è un cestaio. Ha raccontato la sua bellissima storia nell’ultima puntata di “Ti racconto un’impresa”, il format ideato da L’altro Corriere Tv e dedicato alle realtà imprenditoriali calabresi. Laureato brillantemente in Storia all’Università della Calabria, l’obiettivo di Andrea è sempre stato quello di (ri)scoprire le tradizioni del passato per riportarlo nel presente. A Cerisano ha acquistato una struttura del ‘500. «Questa zona – sottolinea – anticamente era popolata dai briganti, come ci viene raccontato da Vincenzo Greco nei suoi libri. Si rifugiavano qui per fuggire dalle retate delle forze dell’ordine». Oggi, in quella contrada, Andrea porta avanti la sua passione per la cultura, unendo la pratica del lavoro tramandato dalla sua famiglia, allo studio.
«Mio nonno Luigi – afferma – era un cestaio di antica tradizione, perché lo erano i suoi genitori e i suoi nonni. Io sono cresciuto in quest’ambiente artigianale. Dopo la scomparsa di mio nonno, con la maturità e con i miei interessi culturali (un diploma al liceo artistico e, appunto, una laurea in Storia all’Università della Calabria) che si sono via via allargati, mi sono reso conto dell’immenso patrimonio che si era perso. Ecco che allora ho iniziato a studiare i cesti di mio nonno e da lì è nata questa grande passione. Ho imparato da autodidatta a realizzarli. Però poi, pian piano, ho ampliato le mie conoscenze e ho iniziato a studiare in maniera approfondita i cesti della provincia di Cosenza. Noi in Calabria abbiamo una fortuna che forse pochi hanno al mondo. Già nel ‘700, i viaggiatori che percorrevano il “Gran Tour delle Calabrie”, descrivevano la nostra terra come un paradiso. Un paradiso selvaggio, perché le popolazioni che vivevano all’epoca in Calabria, per quanto potessero essere grandi di cuore, erano culturalmente arretrate. Ma questo paradiso effettivamente è reale, abbiamo la fortuna di avere la biodiversità maggiore in Italia, forse il totale delle nostre specie arboree supera quelle delle altre regioni. Basti pensare al fico. Solo nella provincia di Cosenza, abbiamo più di 68 varietà di fico geneticamente diverse. Solo questo ci fa comprendere l’immenso patrimonio che abbiamo».
È proprio l’immenso patrimonio della biodiversità che permette di avere a disposizione diverse varietà di materiali. «Anche la cesteria – evidenzia Andrea Perrotta – con l’evolvere dei secoli, si è sviluppata utilizzando materiali del luogo. Faccio un esempio: noi qui, nella zona di Cosenza, grazie al fiume Crati, abbiamo quantità di canne e salici.Perciò, nella zona di Cosenza, la cesteria che si è andata a sviluppare è quella che utilizza principalmente il salice e la canna per le pareti del cesto. Se ci spostiamo invece sulla Sila, dove ci sono grandi boschi di querce e castagneti, scopriamo che lì il salice viene sostituito dal castagno, oppure dalla quercia, per fare dei cesti in lamine di castagno di quercia. Se invece andiamo sul Tirreno, da cui vediamo questi monti calabresi cadere a picco sul mare, troviamo una vegetazione più mediterranea. Qui troviamo l’asfodelo. In automatico viene utilizzata quella fibra naturale per intrecciare i cesti, oppure viene utilizzato lo stelo del grano, come accade a Belmonte Calabro, per realizzare i famosi “crivi”. La ricchezza della natura ci permette quindi di avere anche una ricchezza nell’artigianato e una diversità di forme della cesteria, che, come per la natura stessa, vanno a superare quelle dell’intero patrimonio nazionale. Siamo fortunati in questo».
Ma quante ore occorrono per la composizione di un cesto? Andrea Perrotta lo spiega dettagliatamente. «Quando vediamo un cesto – sottolinea – ci troviamo davanti a un manufatto già realizzato e non si può immaginare quanto lavoro c’è dietro. Perché se per realizzare un cesto di medie dimensioni servono dalle tre alle quattro ore di lavoro, bisogna tenere conto anche dell’attività preliminare, che non viene vista e a volte non viene nemmeno apprezzata da chi acquista un cesto. Ad esempio, il salice va raccolto a luna calante a gennaio, quindi con il freddo bisogna andare in zone umide e paludose, oppure a luglio con il caldo, per poi poterlo sbucciare e ottenere dei manufatti più fini. Stessa cosa avviene per la canna che va raccolta sempre in inverno, va sezionata in strisce sottilissime, per poi permettere l’utilizzo in cesteria». In pratica le quattro ore di lavoro che servono a realizzare un cesto, diventano otto. «Il lavoro che c’è dietro – ammette Andrea Perrotta – è considerevole e forse anche per questo oggi è sempre più difficile trovare artigiani in grado di vivere di questo mestiere, anche perché acquistare un cesto o un secchio in plastica, o un cesto prodotto in maniera semindustriale, è più economico e nello stesso tempo più semplice nell’utilizzo». Al di là del cesto, c’è la cesteria più fine, come ad esempio l’impagliatura delle bottiglie o delle damigiane, che un tempo veniva fatta soprattutto per fare dei doni. «Era considerato infatti di buon augurio – rivela Perrotta – regalare una bottiglia ricavata con salice decorticato, molto fine e anche decorata. Nello stesso tempo questa cesteria fine veniva utilizzata nel corso dei rituali, come i matrimoni. Nel matrimonio, in tutti i paesi della Calabria arrivava il giorno in cui si “vestiva” il letto, e per farlo venivano utilizzate delle ceste in vimini che contenevano appunto tutto il corredo. Anche nel matrimonio stesso, quando ancora non si usava fare i banchetti come oggi, magari venivano preparati dei panini per essere serviti ai commensali su queste ceste raffinate».
Andrea Perrotta parla anche di un manufatto che probabilmente oggi in pochi conoscono: la ventarola. «Veniva utilizzata anticamente per soffiare sulle braci del braciere – afferma – quando ancora il riscaldamento in casa non c’era. Era realizzata in lamine di castagno». Ma i cesti calabresi su cui lavora da tempo Perrotta sono diversi. Alcuni di essi hanno origini reggine, siciliane e sarde «perché la Calabria – rivela – ha un’origine comune a queste altre due regioni per il passato che abbiamo avuto sotto il regno spagnolo prima e dei Borboni successivamente. Per questa ragione diverse forme della cesteria tradizionale si riscontrano soltanto in queste tre regioni e per alcune tecniche specifiche anche in Catalogna. Abbiamo poi anche la canestra che, come detto prima, in passato veniva utilizzata soprattutto nei giorni di festa o per portare o conservare i panni. È un tipo di cesteria priva di rami o verghe che possono impigliarsi ai panni e magari strapparli».
Il cesto in passato era indispensabile, tant’è che in ogni famiglia c’era almeno un cestaio. «Era necessario – conferma Perrotta – per la vita nei campi, basti pensare alla raccolta delle castagne. Qui siamo in una zona adatta alla coltivazione del castagno, nel ‘700 era la coltura predominante a Cerisano. Ogni famiglia possedeva almeno un moggio di tremila metri di castagneto. Ciò permetteva a tutti di vivere tranquillamente, di sopravvivere all’inverno, perché il castagno, appunto, produceva dei frutti che servivano sia all’alimentazione umana che animale. Nello stesso tempo il cesto era fondamentale anche per gli usi quotidiani. Noi oggi abbiamo cassetti, cestini in plastica per conservare il cibo, ma anticamente c’era la cesta per ogni alimento, come le patate, il grano e tanto altro».
Ma la ricerca storica di Andrea Perrotta è costante. Dalla passione per la cesteria tradizionale, in poco tempo ha sviluppato quella per i coltelli calabresi. «Perché io – afferma –, da calabrese orgoglioso di esserlo, volevo utilizzare degli strumenti della nostra terra. Allora ho iniziato a studiare e a cercare di capire se esisteva un coltello tradizionale calabrese. Oggi i coltelli che vengono denominati calabresi in realtà non sono calabresi perché vengono prodotti a Scarperia in Toscana. Hanno una forma ideata a Scarperia a fine ‘800, chiamata appunto “coltello calabrese”, però è una forma di coltello toscano. Oggi viene utilizzato per lo più lo sfilato di Caltagirone, chiamato “vopa calabrese”, ma anche questo non appartiene alla nostra storia. Anticamente la Calabria – spiega Perrotta – aveva delle forme per le lame molto particolari. Già a metà del ‘600 Giovan Battista Colonna, in una esposizione di alcune armi sequestrate ai malviventi, descrive anche i coltelli calabresi. Quindi sappiamo già che nel ‘600 c’erano dei coltelli che venivano identificati come calabresi, con caratteristiche peculiari. Partendo da questa storia, pian piano, ho iniziato ad approfondire l’argomento. Ho scoperto che effettivamente non c’era una solo tipologia di coltello calabrese, ma esistono più forme. Ho riscoperto quest’arte grazie agli studi che ho fatto a livello di documentazione bibliografica. Poi ho iniziato a raccogliere anche dei coltelli antichi, ottocenteschi, da lì li ho studiati e sono riuscito a realizzare appunto coltelli tradizionali calabresi con forme, materiali e tecniche utilizzate in passato».
«Quest’arte oggi – racconta Andrea Perrotta – risulta sconosciuta perché con l’unificazione nazionale questo artigianato scompare e vengono introdotti, come abbiamo detto, coltelli prodotti in serie, come ad esempio Scarperia, Frosolone e altri. Quindi dal centro-nord Italia vengono introdotti dei coltelli molto più economici rispetto a quelli prodotti in regione. Nel giro di pochi anni hanno sostituito il coltello calabrese. Raffele Corso, nelle sue ricerche per la mostra che venne fatta nel 1911 per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, ebbe difficoltà a trovare artigiani che producessero questi coltelli. Tant’è che le lame che raccolse per questa mostra che si trova a Roma al Museo dell’Arte Popolare, sono state prodotte prima del 1911 e lui le descrive come fondi di magazzino. Parla di artigiani che ormai non lavoravano più e avevano in magazzino coltelli semilavorati, oppure lavorati conclusi però non venduti».
Andrea Perrotta non ha dubbi nel definire «la coltelleria tradizionale calabrese tra le più belle in Italia. Come accade per la cesteria, ha influenze spagnole. I coltelli che si avvicinano di più a livello estetico a quelli calabresi sono le “navajas” spagnole, con delle peculiarità precise. Una caratteristica che identifica tutti i coltelli calabresi è il piedino, chiamata in dialetto “scarpuzza” o “peduzzu”, in ottone e con il manico leggermente schiacciato. Bisogna dire – prosegue Perrotta – che, come accaduto per la cesteria, nelle varie zone della Calabria si trovato coltelli diversi. In alcune zone troviamo infatti dei coltelli più raffinati, più piccolini, che si sviluppano nel circondario di Cosenza. Abbiamo poi altre lame prodotte nel reggino che hanno caratteristiche diverse rispetto a quelle cosentine e, nello stesso tempo, forme differenti in base anche all’utilizzo. C’è il coltello da nobiluomo, più raffinato e decorato, e c’è anche il coltello del pastore, che non veniva realizzato da armieri o da coltellinai esperti, ma da mastri ferrari. Questo genere di coltello ha una forma più semplice, però mantiene comunque le caratteristiche che lo contraddistinguono. Un’altra tipologia di coltello molto particolare, che è il primo multiuso dell’età moderna, è il coltello con la forchetta, chiamato in calabrese “curtiaddru cù ra vrocca”, oppure “curteddu” nel catanzarese, ma in ogni parte della Calabria il nome può variare. Questo coltello, oltre alla lama per tagliare il cibo, aveva delle piccole forchette, una o due, estraibili, utilizzate per mangiare».
Insomma, due passioni antiche che Andrea Perrotta, grazie alla sua curiosità di storico e all’ereditata lasciatagli in dono dei suoi nonni, sta facendo conoscere oltre i confini regionali. Della sua storia negli ultimi anni si sono occupati anche i grandi media nazionali. «Io queste due passioni – afferma – le sto coltivando e sto cercando di tramandarle, perché, per via della tecnologia e della globalizzazione, ogni arte, e in special modo ogni mestiere artigianale, rischia di scomparire. Pensando ad un futuro nel quale non si conosceranno più la cesteria, la coltelleria ma anche altre arti come la falegnameria, io punto tutto su un lavoro di ricerca e di documentazione. Al tempo stesso cerco di tramandare queste arti affinché chi verrà dopo di noi possa vivere queste tradizioni come le stiamo vivendo noi oggi».
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