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Lotta alla malamministrazione, Costabile: «Occorre una ribellione culturale contro la rassegnazione imperante in Calabria»

Il docente di Storia della Pedagogia all’Unical denuncia: «L’antimafia calabrese spesso è una delle facce del potere massomafioso»

Pubblicato il: 14/07/2023 – 10:20
di Emiliano Morrone
Lotta alla malamministrazione, Costabile: «Occorre una ribellione culturale contro la rassegnazione imperante in Calabria»

COSENZA Giancarlo Costabile insegna Storia della pedagogia nell’Università della Calabria e si distingue per il suo costante lavoro intellettuale, non soltanto come docente, basato sulla Pedagogia dell’antimafia. È un pensatore scomodo, ostile agli ambienti, alle finzioni e alle liturgie del potere.
Costabile studia e pratica il modello educativo di don Lorenzo Milani e da anni è impegnato in azioni di resistenza e solidarietà civile dal basso. Con lui oggi parliamo di cultura, informazione, scuola e università come mezzi di emancipazione, di possibili alleanze per un’antimafia sociale che aiuti a sconfiggere il diffuso rifiuto, in Calabria, della responsabilità individuale e collettiva del futuro.
Nella nostra terra, dice Costabile al Corriere della Calabria, «abbiamo bisogno di un contropotere organico che tenga insieme segmenti della migliore magistratura, della Chiesa impegnata nella promozione di giustizia sociale, di intellettuali nobilmente eretici e visionari, di giornalisti dalla schiena dritta non al servizio della borghesia mafiosa, dei movimenti sociali che lottano dal basso per i diritti, capaci di coniugare la necessità di una profonda rivoluzione giudiziaria con l’esigenza di una ribellione culturale che sottragga questa regione a una grigia quotidianità fatta di rassegnazione, inginocchiatoi, silenzi». 

Professore Costabile, partiamo dall’autonomia differenziata. Il dibattito sull’argomento è ripreso. Nei giorni scorsi l’imprenditore calabrese Antonino De Masi ha detto all’ex ministro Roberto Castelli che servono riforme che non dividano il Paese. Nella sentenza numero 168/2021, la Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale del secondo decreto Calabria sulla sanità, nella parte in cui non prevedeva che al prevalente fabbisogno della struttura commissariale provvedesse direttamente lo Stato. Il centrodestra, che spinge per l’autonomia differenziata, sostiene che le Regioni avrebbero maggiori responsabilità e possibilità e che, se virtuose, sarebbero avvantaggiate da questa riforma ora in corso. Il commissariamento della Sanità calabrese mostra una contraddizione profonda, del resto colta dalla Consulta nella citata sentenza: è nelle mani dello Stato, ma la gestione dei processi resta in capo al sistema regionale che ha determinato le gravi condizioni per l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del governo statale. Le pare un controsenso l’istituto dell’autonomia differenziata, in un contesto di profonde diseguaglianze di diritti e servizi e di contraddizioni, come quella qui indicata, ancora irrisolte?
«Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è un progetto eversivo dell’ordine costituzionale con due (macro) obiettivi strategici: da un lato, sfregiare l’idea chiave dell’articolo 3 comma 2 della Costituzione che pone l’eguaglianza delle opportunità e la giustizia sociale come meta politica dell’agire dello Stato repubblicano; dall’altro, rendere definitive le disuguaglianze territoriali tra le aree del Paese che, relegando di fatto il Mezzogiorno a mera riserva di braccia e cervelli per l’economia settentrionale, completano il processo storico di colonizzazione della società meridionale iniziato con la costruzione da Nord, nel 1861, dell’Unità della nazione. Non abbiamo bisogno a sud di Roma di una cultura dei diritti differenziati, ma del pieno recupero della credibilità dello Stato e della ricostruzione della sua attiva presenza. La Costituzione, a 75 anni dalla sua effettiva promulgazione, è ancora largamente inattuata nei territori del Mezzogiorno. La condizione disastrata della sanità calabrese è la manifestazione più evidente del tradimento dello Stato nei confronti dei nostri diritti di prossimità. La forzata, e voluta, emigrazione sanitaria calabrese è funzionale soltanto agli interessi economici delle strutture ospedaliere, pubbliche e private, del nord Italia. La nostra terra – e la sanità ne è lo specchio – è il bancomat della borghesia padronale settentrionale che si nutre in modo spregiudicato delle nostre fragilità e disgrazie. L’autonomia differenziata si innesta in questo quadro di estrema precarietà dei diritti sociali e per tali ragioni deve essere contrastata nel modo più deciso possibile. La nuova Italia, quella che i padri costituenti sognavano, deve nascere da Sud e sui valori di solidarietà, inclusione e condivisione».

Criminalità organizzata, colletti bianchi, potere politico, massoneria deviata. Qual è il pericolo maggiore per la Calabria e come si può combattere, al di là dell’azione della magistratura, un sistema che nella nostra regione sembra riunire, in qualche modo, tutte e quattro queste strutture?
«Ha utilizzato la parola giusta: sistema. La Calabria, nel quadro di dinamiche similari nelle altre regioni meridionali, è stata storicamente il laboratorio sistemico della criminalità istituzionale legittimata dai “Palazzi” del potere romano per governare il sottosviluppo economico e civile del territorio attraverso il paradigma della subalternità. Massomafia, borghesia mafiosa, colletti bianchi non sono parte di un vocabolario epistemico ad uso esclusivo degli scienziati sociali, ma sono il volto precipuo del potere calabrese in tutti i gangli del vivere civile. È un sistema totalizzante, (ferocemente) padronale perché basato sul ricatto e sul clientelismo mafioso quali strumenti identitari delle relazioni socio-produttive. Quella calabrese è una “società mafiogena”, concetto di cui possiamo assumere, in questa sede, il profilo interpretativo suggerito dal sociologo Umberto Santino, che scriveva negli anni Novanta su questa tematica parole illuminanti e, purtroppo, profetiche per spiegarne il funzionamento della sua struttura politico-sociale: “Violenza e illegalità sono moralmente accettate da buona parte della popolazione, sono considerate mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di un ruolo sociale, di impossibile o difficile ottenimento per altre vie, e sono normalmente impunite”. Lo Stato e le istituzioni, alle nostre latitudini, sono in buona sostanza percepiti come “mondi lontani ed estranei, chiusi e inaccessibili”, per utilizzare ancora le espressioni di Santino, se non attraverso la mediazione dei mafiosi e dei loro amici (colletti bianchi) che finiscono per essere considerati espressione di un potere di delega dello Stato che ne legalizza, sostanzialmente e in modo illimitato, il dominio sul territorio. L’unica possibilità di contrasto è il conflitto sociale, democraticamente previsto e normato nello schema valoriale della nostra democrazia. Ma di questo parleremo più avanti nel corso del nostro dialogo».

La magistratura accerta e punisce i reati; la politica e l’amministrazione pubblica dovrebbero assicurare sviluppo, servizi e condizioni di libertà, di eguaglianza nei diritti e di giustizia sociale. Oggi, invece, si confida largamente nella repressione penale, come se essa fosse sufficiente a migliorare i servizi essenziali, per esempio di prevenzione e di cura. Come mai ciò accade? E perché il diffuso apprezzamento per le Procure non si traduce, in Calabria, in un movimento culturale del territorio che sappia opporsi, per dirla con Paolo Borsellino, al “puzzo” del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità?
«In Calabria non si è mai affermata compiutamente un’antimafia sociale. Non serve ricorrere a particolari fonti d’intelligence per ricostruire le storie di ordinaria corruzione e malcostume che negli ultimi 20 anni hanno caratterizzato, ad esempio, diversi esponenti di importanti organizzazioni antimafia (o cosiddette tali). L’antimafia calabrese è stata in molte sue articolazioni una delle facce del potere massomafioso. Un finto ribellismo, pagato con i soldi del sistema, che ha prodotto mediocri spettacoli e volgari parate di massa con l’unico scopo di rendere (il più possibile) credibile un percorso di lotta alle mafie, in realtà già compromesso in partenza perché parte fondativa di una pedagogia obbedienziale che imponeva a livello politico genuflessioni e inchini allo status quo, quello dei padroni e della loro impunità. Mentre la magistratura, negli anni, è riuscita ad alzare il livello dello scontro con le mafie, sia nella loro dimensione più specificamente militare, sia nelle loro collusioni istituzionali, la società civile calabrese non è stata in grado di produrre quel giusto conflitto dal basso necessario per costruire momenti di rottura radicale con i centri decisionali del governo massomafioso del territorio. L’antimafia ha senso se si afferma, a mio avviso, come una decisa pedagogia del conflitto nel quadro di una chiara teoria del cambiamento che metta al centro della sua pratica di lotta la ricostruzione dei diritti di cittadinanza massacrati in terra di Calabria. Un esempio concreto in questa direzione è stato, per citare un’esperienza davvero significativa, il movimento “Prendocasa” di Cosenza, che ha dimostrato il valore strategico e metodologico del conflitto democratico per l’affermazione dei diritti di prossimità. Per il resto, francamente, a parte qualche lodevole eccezione ascrivibile a Libera e ai suoi esponenti locali, l’antimafia calabrese è oggettivamente debole, rinchiusa nel recinto di sterili commemorazioni che hanno prodotto un ribellismo di facciata meramente parolaio e inconcludente. È arrivato il momento di cambiare lo schema dell’antimafia civile e sociale, in Calabria e nel Paese. Con le giaculatorie convegnistiche e i festival dell’antimafia, tutti lustrini e paillettes, non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo avere il coraggio di costruire un nuovo vocabolario del conflitto in grado di produrre socialmente parole ribelli e antisistema. Per vivificare la nostra democrazia e liberare i nostri territori».

Trattato di Maastricht, inchiesta Mani pulite, stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, speculazione sulla Lira, aziendalizzazione della sanità e della scuola sono fatti importanti dei primi anni ’90, contestuali alla strutturazione del sistema dell’euro, preceduta e accompagnata da tagli della spesa pubblica, dall’eliminazione, dalla riduzione e dall’accorpamento dei servizi. Crede, anche in prospettiva delle prossime elezioni europee del 2024, che la politica calabrese non abbia fatto o non possa fare alcunché per chiedere riforme delle istituzioni europee e del Trattato Ue sulla stabilità in grado di garantire, rispettivamente, l’effettiva partecipazione del popolo e risposte tangibili ai bisogni del Mezzogiorno? 
«La politica calabrese, nel quadro della debolezza della politica meridionale, pesa in Europa come il “due di coppe” quando la briscola è a denari. Oggi abbiamo la necessità storica di contrastare il disegno egemonico dell’Europa delle banche, schiacciata sugli interessi franco-tedeschi. L’Europa delle élite guerrafondaie e affaristiche può e deve essere messa in discussione da una visione altra del continente e del suo ruolo nel mondo. Il problema è rappresentato dalla crisi strutturale della politica italiana, non soltanto calabrese e nazionale, priva di una visione trasformativa e imprigionata in una mediocre pratica ragionieristica, utile soltanto agli interessi statunitensi di cui l’Europa dei banchieri è una delle vestali più fedeli. Nel nostro Paese non esistono più “forze rivoluzionarie” capaci di mobilitare strati sociali inclini alla costruzione di modelli di partecipazione attiva alle vicende nazionali ed estere. I partiti sono macchine mediatiche, organizzate internamente secondo schemi clanici e clientelari, governate da ristrette oligarchie che basano il loro potere sull’autoreferenzialità e il controllo assistito del disagio sociale. È oggettivamente difficile ribaltare questi rapporti di forza tra élite e popolo in Calabria e nel nostro Paese. Ci sarà sempre meno Calabria e Mezzogiorno nell’Europa della finanza e delle banche».

Peppino Impastato lottava con la coscienza che la mafia creasse gravi diseguaglianze e pesanti squilibri sociali. La Sicilia ha una forte tradizione di impegno antimafioso. Come valuta l’antimafia civile in Calabria, regione in cui non sembra ancora esserci piena coscienza collettiva del fatto che la ’ndrangheta produce povertà, disparità, rassegnazione ed emigrazione? 
«I calabresi sono perfettamente coscienti della natura del potere mafioso e dei suoi effetti nella regione. Perché non si ribellano? Il discorso è complesso e le ragioni sono diverse. L’assenza endemica dello Stato, la fragilità già discussa dell’antimafia sociale calabrese, il ferreo controllo del territorio da parte dei clan organizzati (e non soltanto quelli di esplicita matrice mafiosa), il silenzio delle istituzioni culturali, le campagne di stampa di certo “garantismo amorale” ogni qualvolta la magistratura mette in discussione il diritto all’impunità dei padroni, sono tutti aspetti che concorrono innegabilmente a far comprendere (che però non vuol dire giustificare) la particolarità del ‘silenzio calabrese’ dinanzi a poteri che sono (ampiamente conosciuti) nei territori della regione. In questa direzione, un caso da studiare nelle università potrebbe essere rappresentato dalla mancata reazione (per usare un eufemismo) della società civile rendese e cosentina dopo l’inchiesta Reset condotta dalla Procura di Catanzaro (e da Nicola Gratteri), se escludiamo la meritoria iniziativa organizzata da alcune sigle sindacali e da esponenti della politica e delle associazioni locali nel novembre 2022; (mancata) reazione che diventa incomprensibile, addirittura, dopo lo scioglimento del Consiglio comunale di Rende per infiltrazioni mafiose. Di più: tace sulla spinosa questione persino l’antimafia organizzata. Una coltre di mutismo che lascia ipotizzare una significativa reticolarità delle appartenenze ai gruppi di potere dell’area urbana da parte, evidentemente, di molti autorevoli esponenti della cosiddetta società civile. Rende come San Luca, quindi, nel senso della piena accettazione del linguaggio dell’omertà come, ad esempio, avveniva nel comune della Locride durante la stagione dei sequestri di persona. Ma Rende, per composizione culturale e sociale, è profondamente differente dalla San Luca di oggi e soprattutto di ieri. Quindi non parlerei di scarsa coscienza collettiva ma di non trascurabili contiguità e complicità con il sistema criminale delle massomafie. La verità è che la borghesia mafiosa, la mafia imprenditrice di cui parlava Pino Arlacchi nel 1983, sta diventando la classe dominante del sistema socio-produttivo. Ma questo fenomeno, invero, non è soltanto calabrese, anche se da noi ha peculiarità precise, di cui mi piacerebbe un giorno discutere con voi del Corriere della Calabria».

Lei pensa che negli anni le scuole e le università calabresi abbiano determinato un risveglio delle coscienze rispetto al dominio criminale o al verticismo, all’attendismo, all’opportunismo nei partiti politici? Come l’università potrebbe a suo avviso incidere nel cambiamento culturale della Calabria?
«La partita della formazione delle coscienze è costitutivamente un gioco di potere, di poteri. Scuola e università si muovono dentro narrazioni ufficiali e progettualità stabilite dalle classi dirigenti. Al di là di retoriche e proclami, sono inesorabilmente parte integrante del linguaggio dello Stato che concorrono a legittimare con le loro pratiche educative. Gli spazi educativi dissonanti, quelli che provano a rendere attuabile attraverso una didattica del conflitto un racconto divergente rispetto alle vulgate dominanti, sono ridottissimi nel Paese, non solo in Calabria. Il binomio obbedienza/disobbedienza scandisce la relazione educativa su cui si articola il processo d’istruzione a tutti i livelli. Le scuole sono diventate una fabbrica di replicanti che lavora con lo specchio della duplicazione, direbbe Gianni Rodari. Mettono in circolo parole statiche, banali, inerti, con cui nutrono una grammatica dell’accettazione (mesta) del presente. Dalla didattica scolastica è scomparsa da tempo l’idea stessa di futuro come tempo della trasformazione e del cambiamento orientato da valori che nascono dalle lotte per i diritti di prossimità. In Calabria, questa tendenza è evidente ad occhio nudo; anche in questo caso non dobbiamo scomodare i report dell’intelligence per studiare il funzionamento e la riuscita delle tecniche di manipolazione nella relazione pedagogica. Le università hanno accettato, per spirito di sopravvivenza, di lavorare sulla formazione di una tecnocrazia di oggettiva qualità che risponda alle necessità strumentali del sistema della globalizzazione capitalistica. È chiaro che in una terra come la nostra, in cui le diverse statualità (più o meno occulte) quali la massoneria e le mafie rappresentano la vittoria dell’anti-Stato sullo Stato della Costituzione, le tendenze in atto nel Paese rendono ancora più difficile la pratica fattuale di un alfabeto pedagogico di rottura con il paradigma obbedienziale, da noi totalizzante. In Calabria, più che altrove, non possiamo in ogni caso disattendere la responsabilità morale e politica di lavorare per una pedagogia dell’antimafia che si ponga come codice comportamentale di coscientizzazione ed emancipazione. Da milaniano, credo moltissimo nella funzione politica della cultura e nella sua forza trasformativa. Scuola e università non possono sottrarsi alla loro missione civile che a queste latitudini è prioritaria».

Professore, Vladimir Majakovskij scrisse: «Il Partito è l’unica cosa che non tradisce». Convinto, aggiunse: «Non rinchiuderti, Partito, nelle tue stanze, resta amico dei ragazzi di strada». Lei pensa che in Calabria i partiti siano finiti oppure che possano ancora aprirsi ai bisogni, alle voci del territorio?
«I partiti in Calabria, e nel Paese, non esistono più dal crollo del Muro di Berlino. La crisi delle narrazioni novecentesche, il pensiero unico della globalizzazione capitalistica, la nascita dei narco-Stati e degli Stati di mafia, lo strapotere della finanza mondiale hanno dato vita a un centro unico di dominio planetario che per comodità possiamo chiamare “Impero”, utilizzando il lavoro scientifico di Toni Negri. I partiti agiscono dentro l’ombrello dell’Impero e si situano nelle conflittualità locali del capitalismo. In Calabria, assistiamo a un’accentuazione di alcune tendenze globali perché la nostra terra è all’avanguardia in materia di criminalità istituzionale, in considerazione della piena legalizzazione delle statualità extra-legali (massomafie) nelle sfere decisionali del vivere civile. La cultura clanica dell’appartenenza all’anti-Stato è il filo conduttore di tante narrazioni locali che i calabresi, pur conoscendo bene, decidono in ogni caso di alimentare. L’unica speranza di cambiamento della politica sono le esperienze e le lotte dei movimenti che dal basso potrebbero almeno incrinare segmenti consolidati di potere e aprire una nuova stagione di ri-territorializzazione urbana e sociale. Dobbiamo imparare a farci Stato visto che lo Stato a queste latitudini continua a essere latitante nonostante la fine della stagione dei sequestri di persona».

Professore, quali sono, a suo avviso, le cinque priorità della Calabria?
«Ricostruire, in modo visibile, la presenza dello Stato nelle politiche del lavoro, della sanità, dell’istruzione, dei trasporti e dell’ambiente. Se non sottraiamo il lavoro al ricatto della politica locale, se non liberiamo dal clientelismo mafioso la sanità, se non indirizziamo le politiche educative verso pratiche di rottura della grammatica dell’obbedienza, se non leghiamo lo sviluppo infrastrutturale alla tutela e alla bonifica dell’ambiente, se continuiamo a chiudere gli occhi su tutte queste necessità, allora può diventare particolarmente sterile parlare di futuro. Il futuro è il tempo della possibilità che necessita però di una pedagogia della volontà per potersi esprimere compiutamente nella storia. La nostra terra vive di passato e accetta di convivere con un triste presente. I problemi sono noti da decenni. Forse più che discutere di priorità, è arrivato il momento di assumersi delle responsabilità collettive e segnare in modo concreto la propria azione nei territori».

Professore, per citare Rino Gaetano, «chi vive in Calabria» è inappellabilmente destinato a patire o a partire?
«Don Pino Demasi, storico fondatore di Libera e vero maestro di antimafia militante, ama ripetere spesso: «restare per cambiare, cambiare per restare». Questa frase contiene il manifesto della cultura dell’antimafia che ogni calabrese dovrebbe conoscere e attuare. Si resta (in Calabria) consapevolmente per cambiare e si cambia (la Calabria) intenzionalmente per poter restare. La partita, seppur difficile, è ancora aperta, nonostante i ridotti margini di manovra. Non siamo destinati né a patire né a partire. Dobbiamo avere il coraggio di passare da forme inefficaci di resistenza a un’alternativa netta rispetto all’esistente. La storia la fanno i popoli in cammino che hanno il coraggio della ribellione. Il futuro è il luogo dei ribelli, di chi non accetta l’esistente, di chi non si vuole adeguare, di chi ha il coraggio dell’eresia. Cambiare vuol dire, almeno in Calabria, essere eretici nel senso declinato da Luigi Ciotti: ricerca della verità e pratica della giustizia sociale. La storia siamo noi, e non è soltanto il motivo di una splendida canzone di De Gregori».

Giornalisti, intellettuali, volontari, religiosi, coscienze civili. In Calabria è possibile un’alleanza? Avrebbe eventualmente degli effetti?
«Guardi, a me piace, un’altra espressione: contropotere. Noi in Calabria abbiamo bisogno di un contropotere organico che tenga insieme segmenti della migliore magistratura, della chiesa impegnata nella promozione di giustizia sociale, di intellettuali nobilmente eretici e visionari, di giornalisti dalla schiena dritta non al servizio della borghesia mafiosa, dei movimenti sociali che lottano dal basso per i diritti, capaci di coniugare la necessità di una profonda rivoluzione giudiziaria (dobbiamo tagliare la testa del serpente) con l’esigenza di una ribellione culturale che sottragga questa regione a una grigia quotidianità fatta di rassegnazione, inginocchiatoi, silenzi.  Il contropotere (organizzato) è l’unica strada percorribile per ricostruire lo Stato in Calabria divorato dal gattopardismo delle statualità multiple. Gli effetti dipendono dalla “volontà rivoluzionaria” di questa nuova élite e dall’incisività della sua azione culturale e sociale. L’intellettuale organico è una figura ancora possibile, nonostante il collasso dei partiti novecenteschi, perché l’ancoraggio allo Stato della Costituzione è un dovere civile per chi assume funzioni pubbliche e ruoli sociali. Il conflitto con le élite massomafiose è, in definitiva, fondamentale per salvare la democrazia e il suo orizzonte di tutela della dignità sociale dei cittadini». (redazione@corrierecal.it)

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