LOCRI «Ho paura, ma che cosa posso fare? A casa non posso tornare…è una vita che sono sottomessa». A parlare, quasi con rassegnazione, è M., una donna di Locri che pochi giorni fa si è rivolta al centro antiviolenza “Angela Morabito”. «Puttana, se vieni qui ti ammazzo» le aveva urlato il nipote, dopo aver rotto il femore e la spalla alla madre, ora ricoverata. M. è, invece, riuscita a scappare, rifugiandosi nel centro gestito dalla diocesi Locri-Gerace. Ha 79 anni, di cui 60 passati a subire violenza domestica da tre generazioni differenti, dal marito al nipote. La storia, raccontata al Fatto Quotidiano, è quella di tante donne che crescono e vivono in contesti di ‘ndrangheta.
M. per interessi della criminalità organizzata è costretta dal padre a sposarsi presto con il rampollo di una famiglia blasonata negli ambienti di ‘ndrangheta. Quel matrimonio combinato dà inizio al suo incubo. Prima subisce la violenza del marito, fino al giorno del suo omicidio durante la faida di Guardavalle. «Lui – racconta – è morto giovane, in un incidente..». Poi le è toccato subire botte dal figlio, fino a quando viene ucciso nella faida di Siderno. «Anche lui era prepotente e anche lui non c’è più: una disgrazia». Infine, sarà il nipote, il figlio della figlia, ad ereditare la mentalità violenta e patriarcale della ‘ndrangheta. Lui le aveva chiuso il cancello con un lucchetto, obbligandola a chiedere l’autorizzazione per ogni uscita. «Ha la testa che si è un po’ rovinata: un po’ ci è nato, un po’ è stato tirato». Il riferimento è alla zia, la sorella di M., l’unica ammessa a partecipare ai summit tra maschi. «Lei non era una donna di ‘ndrangheta. Mia sorella era la ‘ndrangheta».
«Eravamo convinti che ci saremmo occupati per lo più di migranti» spiega Vittoria Bagalà al Fatto. Invece i numeri dicono che la metà delle donne arriva dai contesti di ‘ndrangheta. «Spesso le nostre ospiti non vogliono andare in commissariato: c’è ancora tanta paura. Non riusciamo neanche a trovare medici che ci compilino i referti, poi ci sono le pressioni delle famiglie di provenienza». Alcune decidono anche di tornare indietro. «Il 30% delle donne che abbiamo accolto purtroppo è tornato indietro, sono rientrate a casa. Ma siamo riuscite a farne accedere tre al programma di protezione. E per noi già strapparne una alla ’ndrangheta è un successo».
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