COSENZA Il quadro dipinto è a tinte fosche, i colori scuri rappresentano le tante maglie nere collezionate dalla Calabria. I guai della sanità, il tasso di disoccupazione, i giovani che scelgono di vivere e lavorare lontano dalla loro terra, la pressione della criminalità organizzata. Il professore dell’Unical Domenico Cersosimo aveva definito la società calabrese – in una intervista al Corriere della Calabria – «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una modernizzazione passiva». La Calabria è stabilmente in fondo alle graduatorie europee degli indicatori economici e sociali. In una parola è «estrema».
Nel saggio scritto per il Mulino “Calabria, l’Italia estrema“, Cersosimo si sofferma sui mali di una regione «dove la somma delle patologie nazionali si raccolgono». E poi ci sono i soliti stereotipi. La ‘ndrangheta genera altra ‘ndrangheta? «C’è una narrazione negativa sulla Calabria: terra degli ultimi, maledetta, di ‘ndrangheta, di scansa fatiche, di illegalità, di evasione fiscale. Siamo entrati in un meccanismo perverso dove se evadi quasi quasi ti seguo, se tendi a sopraffare le idee altrui lo fanno anche gli altri, quindi lo stereotipo alimenta lo stereotipo e alcune volte quando succede la realtà si avvicina molto allo stereotipo».
Nelle sue analisi aggregate, il docente pone l’attenzione sull’aspettativa di vita di un calabrese «diversa rispetto ad un cittadino del nord». «I calabresi in buona salute vivono 16 anni in meno rispetto a chi risiede nelle regioni nel nord, nel Trentino per esempio, a Bolzano». Perché? «Le condizioni sociali, le condizioni civili e soprattutto le condizioni economiche sono tali per cui vi è meno prevenzione, meno cura e meno attività fisica: tutto questo facilita il diffondersi di malattie molto più diffuse in Calabria che altrove».
Chi è o chi sono i colpevoli di questo inesorabile declino? «Le colpe sono tante, soprattutto di alcune politiche. Il liberismo ha mortificato e marginalizzato le aree più lontane dal centro», dice Cersosimo che poi ammette: «anche i calabresi hanno le loro colpe, in qualche modo si sono assuefatti adattandosi a questo status quo, c’è una sorta di convenienza al non sviluppo, una convenienza sociale diffusa». Cosa si può fare? «Si potrebbe fare molto, è difficile che le forze interne riescano a risolvere e superare il problema. C’è bisogno di un destabilizzatore esterno.
Qualcuno che ha interesse a rompere questo equilibrio, ad interrompere il sottosviluppo ma non siamo noi, deve essere qualcuno esterno». Ad esempio? Forse lo Stato o l’Europa, sicuramente noi non ce la facciamo da soli». Magari gli studenti dell’Unical e delle altre Università calabresi. «Da soli non ce la fanno, molti vanno via. I migliori spesso tendono ad andare via, quindi c’è una sorta di exit, c’è l’abbandono e molte energie sane – quelle che potrebbero contribuire al cambiamento – mollano la Calabria e svanisce qualsiasi possibilità di cambiare le cose».
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