COSENZA Il ritratto è di una Calabria «mentalmente lontana», non solo geograficamente. Una regione «estrema dell’Italia estrema», dove gli stereotipi superano troppo spesso la realtà: non solo per chi in Calabria vive e lavora ma soprattutto per chi la osserva da lontano. Estrema è anche la comparazione, basti pensare all’uscita infelice di Pierfrancesco Majorino, candidato del centrosinistra in Lombardia. «La Lombardia non è la Calabria, è una Regione con grandi potenzialità e un sacco di gente che si dà da fare». Ipse dixit. Tralasciando i banali luoghi comuni e gli sgradevoli cliché, pare doveroso dar conto della ricerca empirica svolta da 28 ricercatori dell’Università della Calabria. Un minuzioso studio della politica territoriale, che attraversa la crisi del regionalismo, lo spopolamento dei borghi tra fuga, restanza e resilienza.
Il professore Domenico Cersosimo definisce la società calabrese «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una modernizzazione passiva». La ricerca portata avanti insieme ai suoi colleghi ha permesso di tracciare un primo bilancio dello studio realizzato nelle quattro aree interne pilota della Snai (Strategia nazionale per le aree interne) in Calabria. «Abbiamo realizzato diversi approfondimenti: indagini telefoniche a giovani e a genitori che vivono nei piccoli paesi dell’Italia estrema. Sicuramente i dati statistici, i dati demografici descrivono una situazione disastrosa in cui c’è un difficile accesso ai servizi, una desertificazione sanitaria e un calo della popolazione insieme ad un deingiovanimento della popolazione», racconta al Corriere della Calabria la professoressa dell’Unical Sabina Licursi. Non tutto è perduto? «Ci sono persone, comunità, che vogliono vivere nei piccoli centri della Calabria e che mantengono forte un legame con il territorio. Considerano la vita che riescono a condurre all’interno di questi contesti degna e significativa, intensa da un punto di vista relazionale e quindi rappresentano delle risorse che potrebbero essere utilizzate e valorizzate adeguatamente per rilanciare quella che noi abbiamo definito una qualificazione della vita rarefatta».
Il turismo, soprattutto quello “slow”, viene spesso indicato tra le principiali e concrete azioni da opporre allo spopolamento ed alla desertificazione di molte aree interne della regione. Troppo poco, per la professoressa Licursi. «Sicuramente non si può pensare di riqualificare la vita dei residenti solo puntando sullo sviluppo turistico, sulla promozione turistica. C’è bisogno di tanto altro, innanzitutto di servizi. Il diritto di chi risiede in questi territori ad avere accesso ai servizi essenziali questo è il primo elemento su cui puntare e a cui poi si aggiungono anche tante politiche possibili per lo sviluppo locale. Tra queste indubbiamente c’è anche quella della promozione di uno sviluppo turistico».
Ridisegnare e ripensare i piccoli municipi destinati allo spopolamento promuovendo e incentivando la fusione di più comuni. Una soluzione che trova (è successo anche in Calabria) la resistenza di molti residenti. Secondo Licursi però la fusione fa la forza. «Questa potrebbe essere una strada. I contesti più spopolati sono anche quelli più difficili da gestire e amministrare e sicuramente la l’idea di mettere insieme le risorse, per esempio per definire interventi più qualificati partendo dalla domanda dei territori, è una strada più facile perseguire se si sta uniti. Su questo non c’è dubbio». (f.benincasa@corrierecal.it)
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