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la riflessione

Shalom. L’odio fra popoli non è mai eterno

“Shalom” dice l’anziana donna ebrea al miliziano di Hamas al momento della sua liberazione, prendendogli tremante la mano. L’uomo, in mimetica, passamontagna nero e tra le mani il fucile, risponde…

Pubblicato il: 26/10/2023 – 7:20
di Francesco Bevilacqua*
Shalom. L’odio fra popoli non è mai eterno

“Shalom” dice l’anziana donna ebrea al miliziano di Hamas al momento della sua liberazione, prendendogli tremante la mano. L’uomo, in mimetica, passamontagna nero e tra le mani il fucile, risponde con un imbarazzato cenno del capo. Shalom è un’antica parola ebraica che significa pace, armonia, prosperità. Sulle labbra di un ostaggio ha un valore rivoluzionario: la vittima dice al carnefice che si può vivere, insieme, nella pienezza della pace! Mi piace pensare che con quel gesto la donna abbia osato intendere non “due popoli in due stati”, come ripetiamo senza convinzione in Occidente, ma “due popoli uniti in un solo Paese”, invece.
Perché arrenderci all’idea che più genti diverse non possano vivere insieme nella pienezza della pace? Come se accettassimo solo la logica dei muri, dei confini, dei fili spinati, dei campi di concentramento, piccoli o grandi che siano. Due popoli che dopo tanti lutti, tanto sangue, tanta violenza, si ritrovino fratelli in una terra non più contesa ma condivisa. È davvero un’utopia questa, come molti credono? Eppure è già avvenuto. In Sud Africa, ad esempio, dove coloni bianchi e neri indigeni hanno finito per convivere pacificamente dopo tanti anni di apartheid? E non è forse vero che l’Occidente, il mondo intero ormai sono un miscuglio indistinguibile di etnie diverse?
Oggi, per gli israeliani e i palestinesi immaginiamo solo odio. Eppure vi fu un giorno, il 13 settembre del 1993, in cui due uomini, dopo essersi odiati a lungo, si strinsero la mano e provarono a capovolgere la storia. Il primo, l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin, disse: “basta sangue, basta lacrime, è finito il tempo dell’odio”. E perciò fu ucciso: si badi bene, non da un terrorista palestinese, ma da un colono ebreo integralista che gli sparò a bruciapelo, il 4 novembre del 1995. Il secondo, il palestinese Yāsser Arafāt, capo dell’OLP, morì nel 2004 quando già i suoi oppositori più violenti stavano demolendo quel che egli aveva costruito. Dopo d’allora, nei due popoli prevalsero le fazioni più oltranziste e guerrafondaie: Hamas nei territori palestinesi, la destra di Netanyahu in Israele. E l’odio riesplose più che mai, sino ai gravi fatti di questi giorni.
A questo punto mi domando cosa sia più utopico: pensare che Israele possa annientare i palestinesi e viceversa oppure confidare che i due popoli possano vivere in pace in un’unica nazione? Se la Striscia di Gaza fosse rasa al suolo, se i palestinesi di Gaza fossero scacciati definitivamente dai loro territori e sconfitti militarmente vincerebbero in realtà i terroristi, che dai loro bui, imprendibili rifugi, avrebbero ragioni in più per proseguire negli attentati contro Israele e l’Occidente. Se, invece, si obbligassero gli Israeliani ad accogliere i palestinesi nella loro nazione, dare loro una cittadinanza, cessare l’apartheid verso gli “arabi israeliani” che già vivono nel Paese, resterebbe solo un rancore che presto si assopirebbe. 
Nella storia del conflitto israelo-palestinese non esiste solo la strage di ebrei inermi del 7 ottobre scorso ma anche – per citarne solo uno – l’eccidio del 16/18 ottobre 1982, durante il quale furono massacrate centinaia (forse migliaia) di profughi palestinesi, altrettanto inermi, nei campi di Sabra e Shatila ad opera delle falangi libanesi con la complicità dell’esercito israeliano. E i bombardamenti a tappeto sui civili della Striscia di Gaza di questi giorni non è forse un’inutile, indistinta vendetta che non fermerà il terrorismo ma fomenterà, invece, l’odio verso Israele? Questa ennesima, folle guerra fra i due popoli, alla fine, non porterà la luce ma perpetuerà il buio.
Racconta uno psichiatra calabrese, Cesare Perri, che un suo avo, anch’egli medico, vissuto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, uscito dal buio delle trincee della prima guerra mondiale, dove aveva amputato centinaia di arti dei soldati feriti, e che dopo d’allora allevò amorevolmente delle talpe per abituarle alla luce, fece incidere questo epitaffio sulla propria tomba: “È più facile educare le talpe alla luce che non gli uomini”. E Arthur Shnitzler, anche lui medico oltre che narratore e drammaturgo, ebreo austriaco, vissuto nella stessa epoca, scrisse, ad involontario complemento della storia del suo collega calabrese: “l’Umanità sa per esperienza millenaria che non esiste odio eterno fra i popoli, anzi che esso alla fine si placa, non solo quando la vendetta sia compiuta ma anche quando essa sia fallita”. E mi viene da pensare, ad esempio, al tragico tentativo di vendetta dei tedeschi di Hitler contro gli ebrei: i due popoli, infatti, dopo d’allora vissero in pace e sono oggi stretti alleati). Per cui mi chiedo se davvero, alla fine, sarà valsa la pena di assistere come tifosi al tentativo di reciproco annientamento in corso fra israeliani e palestinesi, o se non sia più ragionevole imporre la fine di quest’immane tragedia, anche con il contributo di tutte le altre nazioni, non fomentare l’odio, non tollerare inutili vendette. Accoglieremmo così l’invito alla pace dell’anziana donna israeliana, scoprendo forse con sorpresa, che l’odio fra i popoli non è mai eterno, che tanta povera gente sarà morta ed avrà sofferto invano, che uomini e talpe possono rieducarsi alla luce nonostante il buio delle loro vite.

 *Avvocato e scrittore

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