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‘Ndrangheta e femminicidi: le donne vittime perché ribelli

Tante le mogli e le madri uccise per lavare il “disonore” o solo perché avevano voglia di vivere al di fuori delle logiche ‘ndranghetiste

Pubblicato il: 25/11/2023 – 12:15
di Giorgio Curcio
‘Ndrangheta e femminicidi: le donne vittime perché ribelli

LAMEZIA TERME C’è un filo rosso, di sangue. Un legame invisibile che unisce storie di violenze, di abusi. E omicidi. Sono vittime, sono donne. Sono vittime innocenti di una mano criminale, sanguinaria, che non fa sconti a nessuno. Soprattutto a mogli, madri che non si piegano a imposizioni e leggi che rispondono ai codici di ‘ndrangheta. Perché la lotta alla criminalità organizzata è molto simile alla lotta alla violenza di genere, e i numeri degli ultimi decenni lo dimostrano, anche se letti con la memoria annebbiata dal tempo, su cui è il ricordo costante a dover far luce. Distruggere dalle fondamenta “l’anticultura” della ‘ndrangheta, il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ricordando quelle “donne martiri”, uccise perché libere, perché sognavano una vita diversa: lontano dalle logiche delle ‘ndrine, dei capifamiglia, dalle mani violente dei mariti e lontano dagli occhi puntati addosso come spilli.

Maria Concetta Cacciola

L’elenco delle storie di donne uccise seguendo le logiche della ‘ndrangheta è lungo. C’è Maria Concetta Cacciola, morta nell’agosto del 2011 a 31 anni dopo aver ingerito dell’acido muriatico, vittima della sua famiglia proprio perché aveva deciso di ribellarsi alle logiche ‘ndranghetiste, pagando con la propria vita l’essersi rivolta ai carabinieri a maggio di quello stesso anno. Suo padre, Michele Cacciola, era il cognato del boss di Rosarno, Gregorio Bellocco. Lei, invece, prigioniera del matrimonio con Salvatore Figliuzzi, già in carcere nel 2002. Maria Concetta sogna una vita fuori dalla “prigione” di casa sua, un mondo migliore per i suoi figli. Un sogno che le costerà la vita. Qualche anno dopo tutti i suoi familiari finiscono arrestati. Vengono arrestati e condannati col rito abbreviato. Finiscono in galera anche Vittorio Pisani, divenuto poi collaboratore di giustizia, e Gregorio Cacciola, i due avvocati che avevano costretto la donna alla ritrattazione.

Buccafusca e Casini

E poi Tita Buccafusca, morta nell’aprile del 2011 a 37 anni all’ospedale di Polistena dove era stata ricoverata dopo aver ingerito, anche lei, acido muriatico. La donna, moglie di uno dei più importanti e potenti boss della ‘ndrangheta vibonese (e non solo) Pantaleone Mancuso “Luni Scarpuni”, aveva deciso di collaborare con la giustizia e di chiedere protezione. C’è poi la storia terribile di Rossella Casini, studentessa di 25 anni vittima anche lei della ferocia della ‘ndrangheta. La sua vita cambierà drammaticamente dopo aver conosciuto Francesco Frisina, studente fuori sede di Economia, originario di Palmi. Il 4 luglio del ’79 due sicari uccidono Domenico Frisina, padre di Francesco che, poche settimane dopo, sfuggirà miracolosamente ad un altro agguato. Casini convince allora il compagno a denunciare tutto ma è un tradimento che la famiglia calabrese non può perdonare: Francesco viene convinto a ritrattare, lei verrà uccisa e fatta a pezzi da Domenico Gallico e Pietro Managò su ordine di Concetta, la sorella di Francesco.

Annunziata Pesce

Per delineare e comprendere l’anticultura ‘ndranghetista e la ferocia della mentalità criminale delle famiglie, basta richiamare alla memoria la storia di Annunziata Pesce, sparita agli inizi degli anni ’80. Per anni si parlava di una donna “scomparsa” nella zona della Piana, ma non ci si ricordava nemmeno più il nome. Sarà poi Giusy Pesce, collaboratrice di giustizia, a fare il suo nome nel maggio del 2012 nell’aula bunker di Rebibbia rispondendo alla Corte. In quell’occasione le era stato chiesto se sapesse qualcosa di questa ragazza e lei dice «Sì, era una mia parente e si chiamava Annunziata». Dopo oltre 40anni, dunque, in un luogo pubblico era stato fatto nuovamente il suo nome.  

Angela Costantino

Altra storia di violenza, rimasta sepolta per anni, è quella di Angela Costantino. Sposata ad appena 16 anni, quando ne aveva 25 aveva già messo al mondo quattro figli. Il marito, però, non era un uomo qualunque. Pietro Lo Giudice, infatti, era il figlio del capocosca Giuseppe, ucciso a giugno del 1990, nel luogo scelto come “soggiorno obbligato”, alle porte di Roma. I Lo Giudice comandavano sul quartiere “Santa Caterina” di Reggio Calabria, finita al centro della violenta e sanguinosa seconda guerra di ‘ndrangheta che si è consumata tra il 1985 e il 1991. Il marito di Angela era rinchiuso già in carcere e senza alcuna prospettiva di libertà e lei commette l’errore fatale di innamorarsi di un altro uomo. Non passa troppo tempo e i Lo Giudice scoprono la relazione, la pedinano, la minacciano, e la costringono ad abortire quando scoprono che portava in grembo il figlio di un altro uomo che non era suo marito. Un “disonore” che i Lo Giudice vendicano con la morte. Dal 16 marzo 1994 di Angela Costantino non si saprà più nulla, di lei resta solo la sua Panda ritrovata a Villa San Giovanni. Per far luce sulla terribile storia bisognerà attendere l’aprile del 2012. Saranno i fratelli Maurizio e Nino Lo Giudice, nuovi collaboratori di giustizia, a spiegare l’accaduto ai magistrati. Dalle loro dichiarazioni scatta poi il blitz, l’arresto di 12 persone tra cui i responsabili dell’omicidio di Angela ovvero Vincenzo Lo Giudice, uno dei capi della ‘ndrina, Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, rispettivamente suo cognato e suo nipote. Tutti condannati a 30 anni per quell’accordo di famiglia per l’avara col sangue l’onta del disonore. (g.curcio@corrierecal.it)

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