COSENZA «Siamo calabresi, siamo pure italiani, per questo noi chiediamo una u-ni-ver-si-tà. Vogliamo l’Università!». Megafono, mani alzate e un urlo che parte dalle periferie ma ha la forza di scuotere l’intera Calabria. È l’autunno del 1967, gli studenti e le studentesse scendono nelle piazze: indossano giacche di velluto, maglioni larghi, pantaloni di fustagno, camicie coi colletti appuntiti, gonne pesanti e stivali di pelle. I ricordi sono frame in bianco e nero e prendono vita dagli album fotografici.
Nella provincia calabrese arriva solo l’eco del frastuono che in quegli stessi anni agita le grandi città. Adesso però, qui al Sud, c’è da mobilitarsi. I Movimenti studenteschi nati nelle scuole superiori sono il motore, il passaparola corre da una parte all’altra della regione, è un invito a far sentire la propria voce, a manifestare, a disobbedire a presidi e professori, a urlare lo stesso slogan tutti insieme: i giovani calabresi hanno diritto ad una università in cui costruire il loro futuro. Fuori dalle scuole gli studenti fanno chiasso, stravolgono le soporifere mattine delle piazze dei paesi, con gli anziani incuriositi e le mamme sull’uscio di casa pronte a un’interminabile ramanzina. E chi li ferma, quei ragazzi. La mobilitazione andrà avanti fin quando dalle città non arriverà il segnale di cessare la protesta insieme alla notizia più attesa: l’Università della Calabria si farà.
«Allora potevamo cambiare il nostro mondo. Ne avevamo la forza. Alla nostra terra mancava quel punto d’eccellenza: un centro di formazione e cultura. Avevamo grinta ed energia, avevamo voglia di emergere e di fare». È uno di quei giovani a raccontare le mobilitazioni per l’ateneo calabrese. Uno dei numerosissimi studenti che hanno dato il loro contributo ad una causa destinata a cambiare il futuro di tante le generazioni successive. Si chiama Cosmo Pucciano, oggi è un geometra in pensione e dal 1973 vive a Torino. «Ero ancora uno studente, venimmo mobilitati tutti: era fondamentale aderire a scioperi e cortei, ci dissero. Vivevo ad Acri, un paese che raccoglieva un bacino abbastanza ampio di studenti che arrivavano anche dai comuni vicini visto che a parte le scuole medie, c’erano il liceo classico, lo scientifico e un istituto professionale. Ricordo che gli input giungevano fino a noi attraverso i ragazzi di Cosenza che facevano parte del movimento studentesco. Ci fu un’occupazione dell’istituto “Julia” e dell’istituto professionale e in paese quasi tutti non digerivano quei cortei e quella disobbedienza, a loro non era chiaro che ci stavamo battendo per dare ai giovani della nostra regione un’opportunità che era preclusa ai figli degli operai e dei contadini: studiare e laurearsi. Le persone più istruite infatti erano dalla nostra parte, appoggiavano la nostra protesta».
«Ricordo uno di questi illuminati, il prof. Armando Algieri, mio insegnante di italiano, storico militante del PCI, che ci spronava a continuare quella lotta e si scontrava con il preside che invece ci avrebbe voluti più mansueti. Gli insegnanti dei licei erano per l’ordine e si dissociavano quasi tutti. I docenti dell’istituto professionale erano invece i più attivi e battaglieri». Lo stato di agitazione durò circa un mese. «Ricordo poi il giorno in cui finì tutto» aggiunge Pucciano. «Arrivarono i soliti ragazzi cosentini che in una assemblea ci comunicarono che lo sciopero doveva cessare, si doveva tornare a scuola. Era in corso una trattativa e le autorità si impegnavano a dare corso alla procedura per la costruzione di una sede universitaria in Calabria». La notizia venne accolta con entusiasmo da chi si sentiva protagonista di quel successo, con un po’ di delusione da chi non aveva voglia di rientrare in classe. «Iniziò la guerra politica tra le tre province per accaparrarsi la sede, la spuntò Cosenza. Credo che quella fu la sola “Primavera Calabrese”».
Qualche anno dopo quegli slogan urlati dai ragazzi delle scuole calabresi, l’ateneo di Arcavacata era una realtà, se pure gli studenti si muovevano in un cantiere ancora aperto in cui era tutto in fase di organizzazione, c’erano perfino le pecore che pascolavano tra le aule. Cominciava la fase di riscatto per i giovani calabresi, che potevano smarcarsi dall’obbligo di accontentarsi, emigrare o continuare a fare ciò che avevano fatto i loro padri e cominciare ad essere più ambiziosi, costruirsi un futuro seguendo inclinazioni e talenti. Lo racconta benissimo un video pubblicato in occasione dei 50 anni dell’Università della Calabria (compiuti nel 2022). Si intitola “L’Unical come ascensore sociale, le voci degli studenti del ’72” ed è tratto dal settimanale Rai “Scuola aperta” curato da Lamberto Valli e andato in onda nel 1973.
Da dove venite? Chiede l’intervistatore agli studenti (tutti maschi) nel campus di Arcavacata. Gioia Tauro, Roccella Ionica, Catanzaro, Torano, Roggiano, Trebisacce, Spilinga, rispondono. Sono ragazzi figli di contadini, guardiani, impiegati. Arrivano da ogni parte della Calabria e nei loro occhi si legge l’entusiasmo di chi sta cominciando un’esperienza nuova e sa di essere un pioniere. «Mio padre è calzolaio – dice uno di loro – ha la quinta elementare, mia madre è analfabeta. Le uniche preoccupazioni riguardo all’università sono di tipo economico, non avrebbero potuto spendere soldi per mandare fuori un figlio all’università». In questo straordinario documento dallo stile pasoliniano c’è uno spaccato della Calabria dei primi anni ’70, i sogni ma anche i compromessi. È commovente quando parlano delle loro famiglie. «Ho fatto l’istituto tecnico per geometri, avrei voluto fare architettura ma per ragioni economiche sono stato costretto a scegliere ingegneria all’Università della Calabria. Potrà sembrare un paradosso, ma adesso mi trovo molto bene e sono soddisfatto. In questo ambiente c’è molto entusiasmo e si lavora serenamente». Quel sorriso dolcissimo e l’accento inequivocabilmente cosentino sono di Candido Greco. È il figlio, oggi, a commentare le sue parole perché lui, purtroppo, non c’è più. «Mio padre era molto orgoglioso di essere tra i pionieri dell’università della Calabria, di poter studiare vicino casa visto che lui era di Mendicino, perché le possibilità economiche di studiare fuori non c’erano” dice Vincenzo Greco. “Un suo cruccio è stato quello di non aver portato a compimento gli studi nell’ateneo, ha avuto l’opportunità di cominciare a lavorare e quindi ha scelto il lavoro. Conserviamo ancora il suo libretto universitario».
L’archivio fotografico di Franco Michele Greco è preziosissimo per ricostruire l’atmosfera del primo decennio di vita dell’Università della Calabria, come anche i suoi racconti di quel periodo. «Intorno era tutta campagna – ricorda – ma noi avevamo la consapevolezza di essere protagonisti di un momento storico importantissimo. Incontravamo studenti provenienti da paesi sconosciuti e in quella maniera scoprivamo realmente cos’era la Calabria».
Nelle sue foto in bianco e nero si coglie la vita nel campus: le maisonettes (gli alloggi universitari), la mensa, la biblioteca. «Io studiavo Scienze economiche e sociali con indirizzo sociologico e noi di quella facoltà abbiamo avuto il privilegio di conoscere docenti che erano conosciuti anche a livello nazionale come Renate Siebert, Ada Cavazzani, Paolo Jedlowsky, Pietro Fantozzi, Osvaldo Pieroni, Franco Piperno tanto per ricordarne qualcuno. Era un ambiente che “sapeva” di sinistra ma non ci sentivamo obbligati a stare da una parte o dall’altra. Eravamo affascinati dalla sociologia, dalle idee, da quelle lezioni cariche di passione. Una volta ho sostenuto un esame a mezzanotte, non lo dimenticherò mai. Storia economica e sociale dell’età moderna e contemporanea, presi un sudatissimo 30. Senza cellulari e altri dispositivi il tempo era più lento, soprattutto quando si discuteva e ci si confrontava e così avevamo fatto molto tardi. Festeggiammo tutti insieme stappando una bottiglia di spumante».
Si studiava, ma non mancavano certo le occasioni di socialità e divertimento. «Ricordo che nell’aula Caldora c’era un pianobar – racconta Greco – il cantante assomigliava a Claudio Baglioni, in quelle serate meravigliose ci mettevamo tutti intorno al pianoforte. Era bellissimo. Guardavamo le ragazze, ci innamoravamo, provavamo a conoscerle. Stavamo costruendo il nostro futuro e ci sentivamo imbattibili” sospira. “Pensavamo che avremmo cambiato il mondo. Forse non ci siamo riusciti, ma di certo l’università ha cambiato il corso delle nostre vite».
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