«Ho vissuto finora otto vite». Come in un gioco di ruolo in cui è passato da un “quadro” all’altro, Luca Montalto dalla passione per la danza è approdato alla specializzazione in osteopatia e all’approfondimento sulla psichiatria: «Le due discipline sono legate e io ho avuto sempre un grande interesse per la linea di transizione tra il corpo e la mente: ho ampliato così il tipo di comprensione tra paziente e terapeuta». Nella sua vita un altro ruolo fondamentale l’ha avuto la curiosità di conoscere luoghi e storie: «Una volta in pieno Sahara una persona mi ha raccontato la sua esperienza a Rosarno».
• CHI È Luca Montalto
Nato a Cosenza nel 1981, dall’età di 15 anni ha iniziato a danzare frequentando la nuova scena hip-hop bruzia, che in quegli anni si radunava attorno alla “old school” di Dj Lugi e ad esperienze radiofoniche su Ciroma, l’emittente comunitaria nata nel febbraio 1990. Studi in lettere classiche (indirizzo archeologico) all’Unical, poi la svolta e la decisione di partire per Roma per dedicarsi a tempo pieno alla danza. Di qui, “grazie” a un doppio infortunio al ginocchio, la scoperta dell’osteopatia e l’inizio di un terzo percorso di formazione e di vita, ancora studio e viaggi: l’ultimo dei quali lo ha portato in Brasile a conoscere la propria compagna e il posto in cui fermarsi. Per ora.
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Fino a 22 anni non mi sono mosso da Cosenza: però dai 15 anni ho iniziato a danzare e quindi mi sono sempre mosso per l’Italia, finché ho abbandonato lettere all’ultimo anno a Cosenza, a pochi esami dalla laurea, per andare a Roma e approfondire la danza: qui sono stato selezionato ed entrato a far parte di una compagnia così ho ripreso a viaggiare, stavolta per l’Europa. Alcuni infortuni – la vita è strana – mi hanno permesso di imbattermi nella mia futura professione: conobbi un osteopata che risolse un problema al ginocchio senza ricorrere alla chirurgia come era accaduto per il primo ginocchio infortunato. Continuando a danzare però in me era nata una forte curiosità per l’osteopatia. A 24 anni ho iniziato il percorso universitario in una università francese a Roma pagandomi gli studi e la permanenza a Roma con la danza: per sei anni non ho viaggiato… Finita l’università ho ripreso a viaggiare per la mia grande curiosità di conoscere il mondo e le persone: ho lavorato, stavolta come osteopata, prima in Cina e poi in Niger, in una comunità di tuareg che vive nel Sahara, in Cile ai confini con il Perù. Così, seguendo un mio ex professore francese che mi aveva invitato a dei corsi e delle conferenze qui in Brasile, mi sono ritrovato sette anni fa in un posto dove – appena dopo una settimana – ho conosciuto quella che sarebbe diventata la mia compagna di vita, che si occupa di psichiatria. Non mi sono mai più mosso dal Brasile, eccetto, dopo il primo anno, per una specialistica in medicina all’università di Coimbra in Portogallo con lei durata due anni. Dopodiché siamo rientrati in Brasile tre mesi prima della pandemia. Da quattro anni sono fisso qui in Brasile, dove continuo a occuparmi di osteopatia con la mia compagna, nello studio che abbiamo intanto aperto: nel frattempo abbiamo iniziato anche un progetto con un ospedale psichiatrico, sempre perché ciascun ambito in cui operiamo presenta molti punti di contatto. Resto appassionato del mistero umano e noto che non c’è differenza tra i sintomi fisici e quelli psico-emotivi. In generale, ho sempre amato viaggiare anzitutto per ampliare gli orizzonti se un posto mi stava stretto in relazione alla crescita professionale».
Rimpiange o le manca qualcosa?
«Mi mancano le relazioni con gli amici di infanzia e adolescenza, rimpianti nessuno se non forse l’impegno a cercare di rimanere il più possibile in contatto con le persone che sono state importanti per la mia vita, crescita e formazione. Mi manca la facilità con cui si vive il quotidiano in una città come Cosenza: viaggiando e poi vivendo fuori ti accorgi che non è poi così male come vorrebbe la percezione di chi vive lì quotidianamente».
Cosa salva della Calabria?
«Salvo il suo essere a misura d’uomo, al netto delle difficoltà che pure esistono in molti settori. Qui in Brasile le dimensioni sono enormi, tutto è più difficile, persino muoversi all’interno della propria città e regione. La Calabria è un posto più facile e umano da vivere, penso alle relazioni interpersonali per quanto anche qui sia facile convivere con gente aperta e accogliente, anche in una metropoli come Salvador de Bahia, che ha cinque milioni di abitanti. C’è una certa difficoltà a relazionarsi, come in tutte le grandi città».
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«Qua salta all’occhio l’enorme differenza e disparità sociale e razziale su base economica, per questioni storiche: si vede benissimo il risultato del colonialismo europeo e del capitalismo, perché la viviamo quotidianamente e in maniera estrema: qui non esiste quasi la classe media e i poveri non hanno davvero nulla. Eppure io vedo nel Brasile l’umanità del futuro: ci sono delle enormi possibilità di cambiamento, è un tessuto sociale giovane e non ha una formazione e origine culturale unica».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«Non ci sono calabresi che conosco, ne ho conosciuto solo uno che faceva il pizzaiolo ma una vera e propria comunità italiana nel nord-est non esiste».
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«Per motivi storici siamo sempre stati portati a pensare all’emigrazione come a una possibilità di vita. Questo inconsciamente ti forgia e ti dà la possibilità di poterti adattare e trovare il modo di fare ciò che ti serve per poter vivere e sentirti soddisfatto, dopo le difficoltà da superare all’inizio».
Ci sono, al contrario, degli stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«Gli stereotipi siamo noi stessi calabresi a crearli: non conosciamo spesso le nostre radici e tradizioni se non attraverso proprio dei luoghi comuni e tentativi di creare riferimenti identitari, a partire da quelli culinari o turistici oppure sull’ospitalità: tutto comunque rivolto a soddisfare chi passa dalla Calabria e viene magari ammaliato da quelle che definisco “favole folcloristiche”. Ogni calabrese ripete e alimenta questi stereotipi, magari per aggrapparsi e sentirsi parte di qualche cosa, anche se spesso non descrivono la sua identità e le sue tradizioni, per una mancanza di coscienza culturale collettiva legata, secondo me, alla velocità con cui la Calabria è stata inghiottita dalla modernità nel secondo dopoguerra. Una cosa che ho notato è la nostra tendenza alla lamentela, al sentirsi vittima di qualcosa arrivata dall’esterno, sia esso la storia o il destino o i governi: questi ci blocca in una sorta di immobilità e staticità. Quello che non funziona si potrebbe far funzionare meglio con l’impegno di tutti. Pregiudizi non ne ho mai subito, anche qui credo che se ce ne sono li stiamo alimentando noi…».
Torna o tornerà in Calabria?
«Tornare è sempre un desiderio, per una comodità di vita quotidiana. Qui si vive bene ma non mancano la fatica di adattarti e il dispendio di energie in più rispetto alla semplicità della città in cui sei nato. Nei momenti più difficili penso “come sarebbe bello tornare a Cosenza”, in realtà per come sono fatto vedo difficile la possibilità di rientrare. In realtà lavorando a distanza anche con un gruppo di ricerca di osteopati a Roma mi trovo spesso in Italia, il progetto è di passare qui dei mesi e magari quando andrò in pensione soddisferà la voglia di stare in un posto tranquillo dove grosso modo si sta bene».
Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato
x
x