Gelida domenica della prima metà di gennaio. Aspromonte d’Oriente, dall’alto di M. Perre. Quinte dopo quinte, creste dopo creste, gole dopo gole. Sino allo Ionio lontano. E fiumare, grigi draghi sinuosi. E foreste sconfinate, intricate, dedaliche. E frane colossali, che lacerano i fianchi delle valli. Tutt’intorno rupi, pietraie, pascoli, garighe di ginestre, eriche, euforbie, perastri. E boschi radi, popolati di grandi roveri: vecchie e folli, resistenti e ribelli. Creature del passato che predicono il futuro. Tutto congiura contro di loro: l’acqua, il vento, il gelo, l’arsura. Ma sopravvivono, afferrate all’abisso con la forza delle radici. E lanciano ghiande, che germoglieranno.
Fuori c’è calma. Dentro me la solita, irrisolvibile inquietudine. È per questo che oggi sto nell’unico posto dove trovo conforto. Nel silenzio che lenisce l’irrequietezza. Nella solitudine che placa l’ansia. Nell’immensità che azzera l’ego. Nel cammino che rende tollerabile il destino. Lontano dalla città, dall’uomo, dalla sua presunzione senza limiti, dalla tecnica, dall’artificio. Vicino alla natura, alla sua potenza reale, fiera, indomita. Al suo mistero.
Un senso di appagamento m’invade quando, sceso dall’auto, approccio l’orlo dell’immenso cratere sul cui fondo scorre l’Aposcipo. Lì dove Santoro, il pastore, ha posto un ceppo, su cui sedere e contemplare. Cullato dal vento, trafitto dal sole che s’innalza ad est, volgo il capo a centottanta gradi. Stringo gli occhi per mettere a fuoco ogni particolare: cime, valli, pendici, villaggi abbandonati. I luoghi dove vissero gli ultimi ribelli, i resistenti al dominio, coloro che sempre vissero nel cuore della Materia. E per questo furono puniti, deportati, sorvegliati, diffamati. Coloro a cui Dio donò la ricchezza della povertà, come recita un antico adagio calabrese. Anche per questo, l’Aspromonte mi emoziona, mi commuove più di qualunque altra montagna. Il mio cuore è sempre qui, seppellito nelle viscere delle rupi, nelle tane fra le radici, nel cavo dei tronchi.
Il sentiero aggira da sud M. Perre. Risaliamo la traccia scavata nella roccia. Passiamo sopra la sorgiva che ancora sgorga dalle pietre. Lo sguardo precipita nel vuoto: valloni che si scagliano furiosi verso le spire dell’Aposcipo. Poi il declivio: effimera tregua ai baratri. Con il cerchio di pietre di un rifugio di pastori ormai abbandonato. Poi su, fino alla sommità, da dove si apre la vista sulle due cime di Puntone Galera. Sull’altro versante le gole della Fiumara Butramo. Il lungo traverso, il passaggio da I Petrazzi, rovine di un altro rifugio, questa volta enorme: un’antro di Polifemo, protetto dalle rupi. E poi, ancora, il ripido zigzagare del sentiero nell’ombra di Valle Infernale. Sino ad emergere di nuovo nella luce abbacinante di Croce di Dio Sia Lodato. Da qui la visuale è ancor più vasta: dal centro dell’Aspromonte, con il Montalto innevato, sino al mare accerchiante, che riluce come un diadema di zaffiri.
Non paghi, scendiamo sul lato opposto della montagna, nel bosco, stavolta più fitto, ombroso, con la neve sparsa sulla lettiera di foglie e l’aria diaccia che gela il sudore. Cerchiamo le grandi roveri, ultime madri d’Aspromonte, eredi della Dea Bianca, la Grande Madre, Iside, Gea, Demetra, Maria. Le scorgiamo, finalmente, contese fra luce ed ombra. Enormi, millenarie, immobili, silenziose. Il luogo è un tempio, dove si è colti dalla follia sacra, la manìa oracolare. “Eccoti finalmente!” – divinano in coro – “Sei venuto. Hai compiuto il cammino. Sii grato ad Ananke, la dea della necessità. Sii pago del tempo trascorso. E prepara il nuovo viaggio. Perché l’Aspromonte è un destino. Qui è la tua fine, qui il tuo principio.”
*Avvocato e scrittore
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