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Nisticò: «Creare sviluppo in Calabria? Si parta dalla riduzione dei divari civili»

Disamina della docente dell’Unical sullo stato di salute dell’economia calabrese: «Patologica dipendenza dall’andamento della spesa pubblica»

Pubblicato il: 25/02/2024 – 10:00
di Roberto De Santo
Nisticò: «Creare sviluppo in Calabria? Si parta dalla riduzione dei divari civili»

COSENZA La Calabria ha fame di crescere. Ma stretta, nelle sue ataviche debolezze strutturali, non riesce a colmare i suoi ritardi. Anzi vede incrementare il divario con le aree più ricche del Paese. Gli ultimi dati, diffusi da Svimez e da Bankitalia, indicano che la Calabria cresce meno delle altre regioni, registra un crollo demografico ed un incremento della povertà relativa tra la popolazione residente.
Già prima della crisi pandemica la regione non riusciva a tenere il passo del resto d’Italia. Appena lo 0,4% tra il 2015 e il 2019 contro una crescita media del 5,3% italiana. Un quadro che si è replicato dopo il “rimbalzo” di cui l’economia italiana ha goduto successivamente alla riapertura delle attività produttive post emergenza Covid. Così negli anni successivi il livello di ricchezza generato in Calabria non ha prodotto ricadute come nelle altre aree del Paese.
Nel 2023 l’economia calabrese ha registrato più di altre quella brusca frenata non consentendole così di recuperare terreno. Una situazione figlia di una «patologica dipendenza» dall’andamento della spesa pubblica e dalla mancanza di «robusto sistema produttivo» capace di far correre autonomamente l’economia locale. Ne è convinta Rosanna Nisticò docente di Economia applicata, al Dipartimento di economia, statistica e finanza “G. Anania” dell’Università della Calabria che traccia una disamina approfondita sullo stato di salute dell’economia calabrese. Per la docente, per generare sviluppo in Calabria occorre partire dai fondamentali: «il superamento del divario civile viene ancor prima della riduzione del divario economico».

La Calabria dimostra di non riuscire ad agganciare rapidamente i trend di ripresa che si registrano in altri territori. E soffre più di altre regioni nei momenti di crisi. A cosa è dovuto questo fenomeno?
«La ragione principale di questa sfasatura è da ricondurre essenzialmente al fatto che le attività produttive regionali e la presenza sui mercati internazionali, in particolare nei settori dinamici che trainano le fasi del ciclo economico sono modeste e fragili. La congiuntura regionale dipende in modo dominante dagli andamenti della spesa pubblica: si consideri che il settore pubblico allargato in Calabria copre, patologicamente, pressoché l’intero Pil regionale. Ne consegue che la nostra regione tende a entrare in ritardo nelle fasi di crisi economica, che però durano più a lungo rispetto ad altre economie che riescono ad agganciarsi alla ripresa congiunturale. Di contro le crisi fiscali, ovvero la riduzione dei trasferimenti pubblici, tendono a mordere più voracemente, proprio a motivo del fatto che il settore pubblico in Calabria è molto più ampio e influente. In altri termini, e in forma semplificata, si potrebbe dire che il nostro ben(mal)essere dipende più da ciò che si decide a Roma e a Bruxelles, che nelle aziende private regionali. È l’esito di una struttura produttiva locale esile, marginale, relativamente chiusa agli impulsi esterni».

Questa debolezza condanna la regione ad arretrare. Non soltanto non riesce a recuperare terreno, ma allarga il divario. Come se ne esce?
«Non sempre la regione arretra. Come ho provato a dire prima, nelle fasi di politiche pubbliche pro-attive l’economia e le società regionali tendono a convergere verso le altre aree del Paese, a ridurre le distanze. Diversamente, in periodi di contrazione della spesa pubblica si determina un arretramento e spesso il divario si accresce. Tuttavia, guardando al medio-lungo periodo si nota una tendenziale stagnazione della nostra economia, con leggeri scostamenti sopra e sotto i trend medi nazionali, seppur con una prevalenza degli scarti negativi, il che implica un allargamento della forbice economica tra la Calabria e le altre regioni italiane. La via di uscita ineludibile è l’ampliamento e il rafforzamento della base produttiva, ovvero la nascita e il potenziamento di imprese, manifatturiere e terziarie, innovative, aperte agli scambi internazionali, inserite stabilmente in reti e filiere di produzione e in catene del valore internazionali. Assetti produttivi più robusti e dinamici trascinerebbero con sé effetti benefici sull’occupazione e sulla domanda aggregata, e, per questa via, un aumento del reddito delle famiglie e, sovente a cascata, del benessere collettivo. Per di più, l’accrescimento della quota del Pil regionale derivante dalle attività di mercato consentirebbe una riqualificazione del ruolo stesso dell’intervento pubblico, che potrebbe divenire meno curvato su quello della funzione di reddito di ultima istanza, con tutte le implicazioni in termini di distorsione, clientelare e parassitaria della spesa pubblica, e più aderente all’offerta di beni pubblici essenziali di qualità, come la sanità, la scuola, i trasporti, le infrastrutture fondamentali del buon vivere quotidiano».

Uno scorcio di Tropea, una perla del turismo calabrese

Si parla da sempre delle potenzialità inespresse della regione. Su tutte turismo ed agricoltura. Perché il settore turistico ad esempio non riesce a decollare?
«Turismo e agricoltura sono ovviamente settori molto importanti per l’economia calabrese. Tuttavia sono tutt’ora, come alludeva nella sua domanda, al di sotto del potenziale. Il turismo soffre in forma acuta di tre criticità strutturali. La prima è rappresentata dall’elevata stagionalità delle attività, con un picco di “pieno” tra luglio e agosto e di “vuoto” o “semivuoto” nel corso degli altri dieci mesi dell’anno. La seconda riguarda la pressoché mono-specializzazione marina, peraltro concentrata in periodi sempre più corti, e l’assoluta inconsistenza del turismo montano e collinare, culturale, delle città e dei paesi d’arte, sociale. La terza criticità, sicuramente la più rilevante sotto il profilo degli impatti economici, è la stretta auto-centratura delle attività turistiche regionali, ovvero la debolezza endemica dei legami a monte e a valle delle imprese turistiche, che inibisce la loro capacità moltiplicativa. La potenzialità economica del turismo dipende infatti dal cosiddetto effetto filiera, cioè dalla capacità delle imprese di attivare relazioni funzionali con l’insieme dei comparti ad esse connesse: servizi e produzioni complementari, promozione e marketing, trasporti e ristorazione. Il turismo calabrese è tutt’oggi un turismo “povero” di servizi qualificati ed efficienti, “povero” di produzioni locali assorbite dalle imprese turistiche, “povero” di interdipendenze produttive, “povero” di occupazioni qualificate, povertà che insieme determinano per l’appunto la “potenzialità inespressa” segnalata nella sua domanda».

L’agricoltura è uno dei settori strategici per rilanciare lo sviluppo della Calabria

E per quanto riguarda l’agricoltura?
«Seppure con evidenti differenze di natura settoriale, non granché dissimile è la situazione dell’agricoltura calabrese. Anche in questo caso si notano da tempo sottodimensionamenti produttivi, isolamento, frammentazione e polarizzazione aziendali, matrici produttive fortemente incomplete. È evidente una frattura tra agricoltura delle aree di pianura (le aree definite iconicamente “polpa” da Manlio Rossi Doria), caratterizzata da aziende mediamente più grandi, specializzate e relativamente aperte ai mercati europei, e agricoltura delle aree interne, montane e collinari (l’”osso”), caratterizzata da microimprese a carattere familiare, localismo degli sbocchi di mercato, bassa produttività, senilità dei conduttori agricoli. Nelle sparute pianure regionali le aziende più strutturate mostrano livelli di produttività comparabili con quelle localizzate nelle aree ad agricoltura ricca del Paese e, spesso, coinvolte in promettenti processi di allungamento della catena produttiva nei segmenti pre e post-produzione e di cooperazione inter-aziendale; tuttavia, anche in queste aree ad alta potenzialità della risorsa terra insistono molteplici imprese ancora poco dinamiche, più orientate alla rendita e al contenimento dei costi che all’investimento e all’innovazione, compromettendo così le performance complessive».

In cosa finora si è sbagliato nelle strategie adottate per rilanciare questi due comparti?
«Le politiche pubbliche, regionali, nazionali e comunitarie, piuttosto che alimentare lo status quo, come spesso accade, dovrebbero essere indirizzate a risolvere le criticità che impediscono a turismo e agricoltura di esprimere per intero le loro potenzialità produttive, di reddito e di occupazione. Favorendo i legami tra le imprese, promuovendo la loro apertura a mercati/operatori internazionali, incentivando la specializzazione e le complementarietà tra aziende, stimolando la nascita di imprese e comparti per infittire la matrice delle produzioni e dei servizi complementari, aiutando le aziende sottodimensionate a recuperare economie gestionali attraverso la partecipazione a reti di imprese».

Il porto di Gioia Tauro rimane uno scalo di transhipment e non riesce ancora a generare ricadute significative sul territorio

Sempre in tema di potenzialità inespresse, c’è il terminal di Gioia Tauro. Offre poco in termini di ricadute sull’economia locale. Cosa fare?
«Per usare un’espressione giornalistica in voga nel nostro Paese nel passato, si potrebbe dire che Goia Tauro è ancora oggi, a circa 30 anni dall’avvio delle attività portuali, una “cattedrale nel deserto”. Una grande e importante “cattedrale”, che, insieme al campus universitario di Arcavacata e ai Bronzi di Riace, ha plasmato l’immagine pubblica più recente della nostra regione, le sue potenzialità di rinascita, e nondimeno la retorica politica. Il valore strategico geopolitico dell’hub portuale gioiese è fuori discussione. Non bisogna tuttavia dimenticare che Gioia Tauro è nato come porto di transhipment e tale è rimasto: un porto cioè dove arrivano grandi navi transoceaniche che scaricano containers e da dove partono navi più piccole (feeder) e/o treni merci per la distribuzione dei contenitori in altri porti mediterranei e del nord Europa. È noto che questo tipo di porti specializzati nella movimentazione di containers hanno rilevanti impatti diretti – di movimentazione e di occupazione – ma scarsi impatti indotti, ossia esprimono una modesta domanda di servizi e produzioni accessori. Non a caso, nella sua ampia area retroportuale la densità di imprese è assai contenuta, né si sono addensati nuclei significativi di aziende manifatturiere e commerciali interessati a usare il porto come infrastruttura strategica per il loro successo. D’altro canto, in Calabria sono limitate le imprese che per dimensioni aziendali e per apertura ai mercati internazionali di sbocco hanno la necessità di decentrare le loro attività a “bocca di porto”, se non, in rari casi, nella forma di capannoni di stoccaggio di merci da esportare/importare. Diverso sarebbe se una grande impresa multinazionale, industriale o di logistica, scegliesse Gioia Tauro come base per le proprie produzioni. Le grandi imprese, spesso, sono in grado di generare sia importanti impatti diretti sia rilevanti impatti indotti sotto forma di imprese satelliti di subfornitura e di servizi, soprattutto se l’insediamento è accompagnato da politiche pubbliche che incentivano tali legami funzionali a monte e a valle. Ma attrarre una multinazionale a insediarsi a Gioia Tauro non è semplice: ci vorrebbe una strategia politica adeguata, che non si vede, ci vorrebbe autorevolezza istituzionale, che invece latita, ci vorrebbero vantaggi localizzativi importanti, anche questi allo stato piuttosto modesti. Il porto può ancora crescere ma finché resterà un “semplice” hub di transhipment, obtorto collo, non potrà diventare un motore di sviluppo territoriale a tutto tondo. Tanto più se il porto continuerà ad essere una “cattedrale”, una zattera nel Mediterraneo senza retroterra. È paradossale che ancora oggi il porto sia più “vicino” ad Hong Kong che a Gioia Tauro. Ha più relazioni funzionali con i porti e le economie dell’Oriente più estremo che con le cittadine calabre confinanti».

Il divario di servizi, come nel campo dell’assistenza sanitaria, rimane un vulnus da colmare

Intravede altre ipotesi di sviluppo che finora non sono state debitamente considerate?
«Se usiamo la parola “sviluppo” non come semplice crescita del Pil, ma nell’accezione più larga e corretta, ossia come processo di allargamento del benessere collettivo, della coesione e della giustizia sociale, la Calabria ha preliminarmente un disperato bisogno di servizi di cittadinanza. Di scuole e insegnanti di qualità, di ospedali e presìdi territoriali socio-sanitari adeguati ai bisogni di salute dei residenti, di articolati trasporti pubblici locali e extraregionali efficienti ed efficaci, di uffici pubblici orientati al cittadino e ai beni collettivi. La nostra regione, non possiamo nasconderlo, mostra tuttora un elevatissimo deficit quanti-qualitativo di servizi pubblici essenziali, incompatibile con l’appartenenza ad uno Stato unitario e ai dettati della sua Carta costituzionale, che, non bisogna mai dimenticarlo, prescrive medesime dotazioni di servizi pubblici fondamentali per tutti i cittadini, a prescindere dalla loro residenza e dai loro redditi. Colmare questo deficit, quantitativo e qualitativo, rappresenta un imperativo: il superamento del divario civile viene ancor prima della riduzione del divario economico. È preoccupante notare la scarsa consapevolezza politica del divario di cittadinanza che costringe i calabresi a vivere in media una vita meno sicura, più sofferente e incerta, meno appagante e dignitosa di quella che possono vivere i residenti nelle aree più ricche del Paese. Se dovessi suggerire la “prima mossa” direi pertanto che è dal divario civile che bisognerebbe cominciare, non solo per dare dignità di cittadinanza a tutto tondo ai calabresi ma anche perché la qualità del vivere civile influenza enormemente la qualità sociale e lo stesso sviluppo economico».

L’Unical con il suo campus è uno degli Atenei più grandi d’Italia

Ritiene che gli Atenei finora siano riusciti ad offrire quell’apporto ai decisori politici per mettere in campo soluzioni utili allo sviluppo della regione?
«Più che sull’apporto degli atenei calabresi ai decisori politici regionali, mi chiederei se questi ultimi hanno mai provato organicamente a coinvolgere le università nelle scelte decisive per la Calabria. Tranne occasioni episodiche e una tantum, alcune delle quali anche rilevanti, non ho visto finora da parte dei decisori regionali un interesse sistematico a mobilitare il potenziale di conoscenza scientifica che si stratifica quotidianamente nelle strutture di ricerca accademica. L’autoreferenzialità istituzionale è spesso un vizio inveterato nella nostra regione. Un vizio che contribuisce ad alimentare performance e scelte pubbliche subottimali. Senza scomodare Luigi Einaudi e il suo motto “conoscere prima di deliberare”, la conoscenza è un ingrediente essenziale per le scelte pubbliche, tanto più in questa fase storica di insorgente capitalismo cognitivo. Sinergie e collaborazione strategiche tra mondo scientifico e mondo politico andrebbero dunque cercate intenzionalmente da entrambi i mondi, superando talvolta legittime tendenze all’isolamento e all’autosufficienza. In un mondo complesso e incerto come quello in cui siamo immersi, anche in Calabria, la cooperazione istituzionale è in grado di ridurre l’incertezza e le asimmetrie informative e indurre fiducia sistemica, capitale sociale e, in prospettiva, scelte pubbliche ottimali».

La premier Meloni con il governatore Occhiuto alla firma dell’accordo sul Fondo di sviluppo e coesione

Nei giorni scorsi la Calabria ha sottoscritto un importante accordo con il Governo. Cosa occorrerebbe fare per evitare che sia l’ennesima occasione persa?
«L’ Accordo a cui lei si riferisce riguarda la programmazione del Fondo di Sviluppo e Coesione, la “gamba” finanziaria nazionale che affianca i fondi europei del Por Calabria per il ciclo di programmazione 2021-27. Così come nel ciclo di programmazione precedente (2014-2020), si tratta di un Fondo di cofinanziamento delle risorse europee destinate alla nostra regione per il prossimo settennio. Come nel passato, il Fondo è costituito da un consistente volume di risorse finanziarie destinate ad investimenti materiali e immateriali per lo sviluppo regionale. In questo caso si tratta di oltre 2,8 miliardi di euro da impegnare e utilizzare entro il 2030. Dunque la cifra complessiva è notevole. Tuttavia bisogna considerare che 300 milioni saranno detratti per cofinanziare la prevista costruzione del Ponte sullo Stretto – per inciso: una decisione a dir poco bizzarra quella di attribuire alla Calabria una quota non trascurabile del finanziamento di una grande opera nazionale. Al netto del contributo Ponte, il Fondo si riduce dunque a poco più di 2,5 miliardi, in media all’incirca di 350 milioni all’anno. Considerando, secondo quanto divulgato sulla stampa e in assenza di ulteriori informazioni disponibili su quanto programmato, che si vorrebbero finanziare 317 progetti, l’importo medio ammonterebbe a circa 8 milioni, un ammontare in sé contenuto e che poco giustifica l’enfasi politica nell’annuncio della sottoscrizione dell’Accordo. Ma, se è consentito, preoccupa ancor più la vaghezza delle mete che si dovrebbero conseguire con il Fondo, l’assenza di visione di futuro e delle trasformazioni socio-economiche attese. Che Calabria vorremmo nel 2030? Come prefiguriamo i suoi futuri assetti produttivi, la sua infrastrutturazione fisica e civile? Come sarà garantita la salute ai calabresi? Che scuole frequenteranno i suoi alunni? Che tipo di imprese vorremmo che popolassero i nostri territori? Senza visione, privi di un progetto di trasformazione mobilitante, il rischio è che i finanziamenti seguano logiche random, che si disperdano nei tanti rivoli della spesa per far fronte alle emergenze, per interessi clientelari, per consenso elettorale. L’esperienza storica insegna che le risorse finanziarie in sé sono soltanto un presupposto dello sviluppo e del progresso, che molto di più conta la loro allocazione qualitativa, la loro coerenza con il disegno trasformativo, la loro integrazione sinergica con altri fonti finanziarie, la loro trasparenza, il monitoraggio e la valutazione continua degli esiti intermedi e finali. Annunci in pompa magna sulle mere quantità monetarie sono tipiche e frequenti in periodi di consultazioni elettorali, possono contribuire a catturare consenso politico, ma servono a poco per cambiare rotta alla stagnazione della Calabria». (r.desanto@corrierecal.it)

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