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Paura di ammalarsi in Calabria, la grande fuga dalla regione

In 11 anni la mobilità passiva è costata circa 3 miliardi. Oltre 4 pazienti oncologici su dieci hanno scelto di curarsi lontano. Un quadro che getta un’ombra sul futuro

Pubblicato il: 19/04/2024 – 6:58
di Roberto De Santo
Paura di ammalarsi in Calabria, la grande fuga dalla regione

CATANZARO Servizi di prevenzione e cura più carenti. Minore spesa pubblica trasferita al sistema sanitario regionale. Tempi lunghi per ottenere prestazioni e distanze che diventano rilevanti soprattutto se si vive nelle aree più periferiche della regione. Ed ancora un esiguo numero di operatori sanitari – ad iniziare dagli infermieri – che rendono difficoltoso avere assistenza e cure rapide. Con questi indicatori la paura di ammalarsi in Calabria resta una delle questioni più spinose da affrontare per i decisori politici. Anche in prospettiva di garantire quei servizi essenziali per rendere attrattiva la Calabria e puntare così ad invertire quel trend negativo in atto da decenni, che vede andar via sempre più persone dalla regione incrementando il crollo demografico.
La battaglia per far crescere la quantità e la qualità dei servizi sanitari così si tramuta nella sfida principale per mettere in piedi qualsiasi ipotesi di sviluppo della regione. Diviene una delle precondizioni fondamentali. La pietra angolare per gettare le basi di una crescita armoniosa dei territori. Ad iniziare dalle aree interne più penalizzate perché ancor più lontane dai quei servizi che in alcune occasioni diventano fondamentali per garantire la stessa sopravvivenza di un cittadino.
L’assenza di strutture sanitarie rapidamente raggiungibili e ancor più di operatori capaci di intervenire h24 in località maggiormente lontane dai grandi centri si trasforma in una questione di vita o di morte. Da qui la paura che si percepisce tra chi ha la sventura di ammalarsi in Calabria. E ne fa uno dei divari di diritti più ingiusti da dover sopportare. Timori che rischiano di divenire ancor più diffusi con l’avvento della stagione dell’autonomia differenziata.

Il ministro Roberto Calderoli, fautore della riforma sull’autonomia differenziata


Una riforma capitanata dal ministro Roberto Calderoli che mette le mani in materia di trasferimento di risorse in settori particolarmente sensibili, come quello sanitari. Un segmento sul quale la Calabria è perennemente in affanno. Tanto da permanere da oltre un decennio – il primo provvedimento risale al lontano 2007 – in regime di commissariamento. Un allarme lanciato da più voci ed emerso da diversi report che hanno affrontato il tema. Fra gli ultimi quelli della Svimez e della Fondazione Gimbe che hanno segnalato i guasti che potrebbero derivare – da una non equilibrata introduzione della riforma Calderoli – sulla già martoriata sanità pubblica meridionale. In primis quella calabrese, che più di altre soffre di patologie croniche.

Secondo Svimez e Gimbe, l’autonomia differenziata rischia di peggiorare il divario sanitario nel Paese

Gli analisti della Svimez, rilevano che «con l’autonomia differenziata si rischierebbe di aumentare la sperequazione finanziaria tra Ssr e di ampliare le disuguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso al diritto alla salute». Rincara la dose la fondazione Gimbe che denuncia «le imprevedibili conseguenze delle maggiori autonomie in sanità si inserirebbero in un contesto caratterizzato, oltre che dalla grave crisi di sostenibilità del Ssn, da enormi diseguaglianze regionali in termini di adempimenti ai Lea, di aspettativa di vita alla nascita, di mobilità sanitaria, oltre che di attuazione della Missione Salute del Pnrr».
Tutti indicatori, questi ultimi, sui quali la Calabria risulta agli ultimi posti. Timori diffusi tra la popolazione dunque più che fondati e supportati dai numeri impietosi che ricostruiscono una condizione della sanità calabrese – nonostante l’impegno dimostrato dal governatore-commissario Roberto Occhiuto – a dir poco disastrosa. E che motivano i tanti, troppi pazienti che si sono recati fuori regione per ottenere cure ed assistenza maggiore. Un aspetto quest’ultimo che finisce ancora di più per indebolire il sistema sanitario regionale calabrese. L’esodo dalla Calabria, infatti, pesa come un macigno sul meccanismo di trasferimenti finanziari verso la regione. Maggiori sono i calabresi che si rivolgono a strutture sanitarie al di là dei confini regionali minori le risorse destinate dal governo ad alimentare il sistema sanitario calabrese. Così, come quel perfido gioco del cane che finisce sempre per mordersi la coda, la Calabria si vede tagliate quelle somme necessarie a potenziare strutture e personale. Riducendo i servizi e rendendo meno attrattivo per chiunque farsi curare nella regione.


Per dare una dimensione solo di questo aspetto, tra il 2010 ed il 2021, la mobilità passiva – cioè lo spostamento di pazienti calabresi fuori dal circuito sanitario calabrese – in Calabria è pesata per circa 3 miliardi (per l’esattezza 2,97 miliardi).
Prendendo in considerazione l’ultimo dato censito e certificato – quello relativo al 2021 – la regione si è vista evaporare una somma pari a 252,4 milioni da destinare al suo servizio sanitario. Somme che paradossalmente sono finite nelle regioni più ricche. Quelle che si sono rivelate maggiormente attrattive per i calabresi nel garantire servizi ed assistenza sanitaria degna di un Paese civile. Con un aggravio anche per i bilanci familiari che hanno dovuto sopportare i costi di esosi spostamenti verso le strutture sanitarie dei centri d’eccellenza fuori regione. Un quadro che è causa ed effetto al tempo stesso, del traballante sistema sanitario calabrese e che nel futuro potrebbe anche peggiorare.

I numeri della debacle sanitaria

Passando in rassegna i dati relativi alla sanità calabrese, emerge che la regione presenta diverse criticità. Dal sistema di prevenzione, al personale sanitario passando dal sistema di assistenza domiciliare ad alcuni servizi assenti sul territorio, come ad esempio un centro grandi ustionati o branche intere per la medicina dedicata ad alcune patologie pediatriche. Senza contare le deficienze nella rete di emergenza-urgenza territoriale che si traduce in un maggiore tempo per soccorrere un paziente.

Mediamente in Calabria occorrono 31 minuti prima che arrivi un mezzo di soccorso dalla chiamata

Nel 2021, stando alle elaborazioni del ministero della Salute, il tempo medio occorrente tra la ricezione di una chiamata d’emergenza e l’arrivo del soccorso è stata pari a 31 minuti. Decisamente più alta della soglia considerata di sicurezza dagli standard (entro i 18 minuti). Con l’aggravante di aver peggiorato la performance rispetto al biennio precedente. Per l’esattezza +2 minuti nel confronto con il 2020 e ben 9 minuti in più del 2019.


E poi la Calabria risulta ultima nel sistema di prevenzione di malattie dove il tempo è discriminante nella soluzione di alcune patologie.
Su questo aspetto ad esempio nel biennio 2021-2022 soltanto il 42,5% delle donne calabresi nella fascia di età a rischio (50-69 anni), ha effettuato lo screening oncologico mammografico di cui la maggioranza rivolgendosi a strutture private (30,7%). Per dare una dimensione di paragone in Emilia Romagna quella percentuale sale all’87,2% e con una netta prevalenza di pazienti assistiti dal sistema sanitario pubblico: 75,8%.


Dati che da soli fanno comprendere perché un gran numero di calabresi malati oncologici vada fuori regione per curarsi. Nel 2022 dei 5.941 pazienti affetti da neoplasie, 3.482 sono emigrati verso strutture sanitarie lontane dalla Calabria. Fissando il dato record negativo del 41,4%. E specificatamente le malate oncologiche in fuga, per tumori alla mammella residenti in Calabria, il 33,4% si è rivolto al Servizio sanitario della Lombardia mentre il 23% ha ricevuto assistenza nelle strutture sanitarie del Lazio.


E poi c’è la nota dolente delle carenze del personale sanitario. In Calabria ad esempio il rapporto popolazione numero di infermieri è tra i più bassi d’Italia. Secondo i dati del ministero della Salute, ci sono 3,8 infermieri ogni mille calabresi. La media nazionale sale a 5,06, ma se si osservano le regioni del nord quel rapporto cresce ancora: 6,72 per il Friuli Venezia Giulia, 6,68 dell’Emilia Romagna e 6,65 della Liguria. Peggio della Calabria in questa triste graduatoria ci sono – ma di poco – Sicilia e Campania (ultima con 3,59 infermieri ogni mille abitanti).


Senza contare il gap esistente tra la Calabria e le altre regioni sul terreno dell’Assistenza domiciliare integrata, cioè insieme delle cure socio-sanitarie che vengono erogate a domicilio quando una persona verte in situazione di fragilità. Per colmarlo, stando ai dati del monitoraggio sugli obiettivi fissati dal Pnrr, il servizio dovrebbe dal 2019 al 2026 incrementarsi del 416%. Con tutti questi dati negativi, la regione non può che risultare così totalmente inadempiente a garantire i Livelli essenziali di assistenza per i suoi cittadini. Nel calcolo cumulativo effettuato dal ministero, tra il 2010 ed il 2019, la Calabria raggiunge un tasso di adempimento pari al 59,9%, cioè decisamente inferiore al 67,6% ritenuto la soglia minima per tutelare al salute dei suoi cittadini.


Numeri impietosi che spiegano oltre alla fuga dalla Calabria, anche la riduzione dell’aspettativa di vita dei calabresi. I dati dell’Istat certificano che la regione con 81,7 anni medi occupa la zona bassa della classifica, posizionandosi al terz’ultimo posto. Quella media in Italia sale a 82,6 anni fino agli 84,2 della Provincia autonoma di Trento.
Numeri che dovrebbero far riflettere, ad iniziare dai decisori politici, sulle vere emergenze che la regione dovrebbe affrontare, per garantire il diritto alla salute dei cittadini, e anche qualsiasi ipotesi di sviluppo futuro. (r.desanto@corrierecal.it)

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