“Splendidi questi prati fioriti”, esclamò Lawrence Banks, presidente della International Dendrology Society, in quel lontano giorno di giugno del 2001. Eravamo nell’alta valle del Fiume Tacina, in Sila Piccola. E stavamo ammirando i fiori smaglianti sparsi sui prati: viole, orchidee, narcisi, nontiscordardime, margherite, asfodeli, garofani. Dopo un lungo sguardo, Banks soggiunse: “Quando li avete piantati?” Qualcosa lo spingeva a credere, evidentemente, che quella bellezza potesse essere stata prodotta solo dal genio dell’uomo e non da quello della natura. Poi lessi una conferenza di Max Weber dal titolo “La scienza come professione” e compresi l’origine del pensiero che domina le menti di moderni sapiens: la crescente intellettualizzazione e razionalizzazione conduce l’uomo civilizzato a pensare che nella vita non sono in gioco forze misteriose come invece vi erano per l’uomo selvaggio. Ciò comporta che si può, in linea di principio, dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Weber chiama questo inesorabile processo: “il disincanto del mondo” ovvero la perdita di magia, di mistero del mondo.
Domenica di maggio. Decido di sperimentare un nuovo, lungo percorso ad anello che passi per la Val di Tacina in Sila Piccola. E che abbia come snodo centrale quello che chiamai, quarant’anni or sono, Poggio degli Elfi, in omaggio a Tolkien. Ho bisogno di perdermi nell’incanto del mondo. Per questo scelgo un tragitto il più possibile immerso in quella che è sempre stata considerata l’avversaria che la civiltà deve battere, conquistare, soggiogare, rendere schiava del genio umano: la natura. Risaliamo il Torrente Tassito. Dopo le rovine dell’antica segheria, guadiamo il fiume e procediamo sul latto opposto, sino ad una splendida veduta sul Lago Ampollino. I biancospini la incorniciano, come strinati da una neve fuori stagione. Entriamo nella faggeta. Il vento suona una tenera melodia tra le fronde. La luce pare lo sguardo divino che filtra nella volta della foresta. Poi, gli alberi si diradano. E i pascoli del M. Scorciavuoi si aprono, a macchie orlate di pini, sempre più ampie ed aperte, come i cerchi prodotti da una pietra gettata in un lago. Un lago di velluto che s’increspa nel vento. E tutt’intorno il paesaggio, dono degli alberi, che nei secoli si sono fatti da parte, hanno ceduto un po’ di terra ai cervi, ai caprioli, agli altri animali ed anche agli occhi degli uomini. La Sila lo spiega sempre, a chi la attraversa, che non c’è gioia senza visioni, nel duplice senso: di vedute lontane e però anche di sogni, proiezioni interiori.
Sul crinale, gli strumenti digitali dei miei amici danno una direzione, la mia bussola interna ne dà un’altra. Mi arrendo alla verità virtuale. Ma dopo qualche passo, sono gli stessi amici tecnologici a convenire che dobbiamo andare dove dicevo io. Ennesima riprova che nessuno strumento tecnologico potrà davvero sostituire l’intuizione umana, l’intelligenza del nostro encefalo … e quella del nostro cuore. Inizia la discesa verso il Tacina. Un lungo sentiero immerso nella foresta. Solitudine e silenzio sono qui il dono più prezioso. Ed eccoci, finalmente, nella valle del Tacina, sulla stradina che corre fra Torre Rinosi (a sinistra) e la Testa di Tacina (a destra). Prendiamo in quest’ultima direzione. Conosco bene questo tragitto verso il paradiso. Desidero le vedute che mi impressionarono così tanto le prime volte e che suggellarono per sempre la mia dedizione per questo luogo magico. Attendo l’incontro. E l’incontro giunge. Un faggio contorto fa da ala ad un’ansa del fiume, più in basso. L’acqua tintinna come una miriade di campanelli di cristallo. Ha fretta di scendere al mare. Spumeggia fra le rocce. Procediamo “incantati” e forse anche incatenati. Compare Testa di Tacina, la grande valle. Anche qui, oggi, nessun umano. E neppure le mandrie scampananti, che, nei secoli, hanno sostituito i cervi e i bovidi selvatici. Nel mezzo della giornata attacchiamo l’erta che porta sul poggio. E lassù, ansimanti, godiamo del reincanto del mondo a lungo cercato. Poi in direzione inversa, non lungo il sentiero segnato, ma per il quello segreto invece. Risale un ruscello gorgogliante, che inanella, come una collana di smeraldi, una lunga teoria di prati oblunghi. Poi giù, sino a Villaggio Verberano, dove abbiamo lasciato una delle auto. Rientriamo, così, bruscamente, nel disincanto del mondo.
Weber si domanda qual è il senso de “La scienza come professione” oggi, dal momento che tutte le “illusioni” precedenti – filosofia, arte, religione – sono naufragate. E conclude citando la risposta di Tolstoj: “[La scienza] è priva di senso perché non dà alcuna risposta alla sola domanda importante per noi: che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?” Bene, io so come voglio vivere. Sinché potrò voglio perdermi fra i sentieri della terra e quelli dello spirito, sentirmi piccolo e indifeso, propugnare la minorità dell’uomo, credere ancora nei misteri della natura e del suo genio, venerare la tenerezza, battermi fieramente contro il disincanto del mondo.
*Avvocato e scrittore
x
x