Restare, Raccontare, Ritornare sono inseparabili. Non riduceteli a un gadget, a un brand, a una scritta sulla maglietta, alla marca di una birra (come opportunamente ci ricorda Letizia Bindi). Non facciamo il restare, il partire, il tornare i prodotti di quel Folkmarket, che tanti e tanti anni fa aveva analizzato Luigi M. Lombardi Satriani. C’è un uso banale, retorico, rituale del termine restanza. Strumentale, turisticizzato, adoperato da un’impresentabile élite politica. Avevo segnalato questo rischio già nel mio libro. I retori della restanza “offendono” migliaia di ragazze e ragazzi che, quotidianamente, operano nei loro luoghi. Inventano, organizzano, producono, fanno, cultura, creano comunità. Chi vive i “paesi dell’interno” sa di quanto dolore, di quale fatica, di quanti patimenti è il suo restare. Altro che birra della restanza. Che comunque non cancella “i sentieri della restanza” a Gasperina o le mille iniziative di collettivi di base, rivoluzionari, innovativi, anticapitalisti. Come diceva Seminara: “I paesi hanno una tale carica atomica che viverci costa lacrime e sangue”. Ho affrontato questo problema in tanti saggi che, purtroppo, non girano o sono sparsi in volumi collettivi, che adesso sto raccogliendo in volume. Comunque vogliate intendere partire, narrare, restare, non riduceteli a un gadget, a un brand…Restare non è una comoda passeggiata compiuta da fermi. Alla fine, se sei interno a una storia di partenze e di restanze, percepisci che i luoghi che avevano accolto questa storia, sono davvero alla fine. Chiudono non sembrano avere un futuro. Restare non è una pratica di chi vive in piccoli luoghi, nelle piccole patrie, nei paesi di poche migliaia o centinaia di abitanti: restare è il problema dell’abitare, dell’essere in un posto, consapevolmente e responsabilmente, in una città, in una metropoli, in una banlieu. Certo sono diverse le modalità del restare nei diversi contesti e agglomerati. Diverso è restare oggi nei paesi degli Appennini che si spopolano, vuoti, solitari. Diverso è l’essere interno o esterno a un paese. Un doppio negativo e complementare nei confronti dei paesi a rischio abbandono. Per molti il paese è un negativo da rimuovere, un problema da risolvere al più presto. Meglio una sorta di etnocidio e di eutanasia nei confronti di luoghi che non ce la fanno più a vivere, sono moribondi, hanno bisogno di cure e di assistenza, con pochi abitanti apatici e per di più pieni di difetti, litigiosi, conflittuali, inoperosi. Altri vendono il paese a logiche turistiche deteriori e li cedono a un esotismo di maniera per cui il paese diventa Eden, luogo puro e incontaminato, paradiso delle case ad un euro, che si popola d’estate di centinaia di stranieri che non si conoscono, non formano comunità. Questo è un inutile accanimento terapeutico ad opera di chi non pensa al paese, ma al suo sentirsi vivo nel vuoto e con l’irresponsabilità di invitare ad abitare i paesi come luoghi di salvezza, dove invece magari muori perché non ci sono scuole, ospedali, farmacie, strade. Chi abita, non di passaggio, non in maniera occasionale, distratta in un paese, sa quanta fatica, amarezza, dolore comporta vivere il vuoto. Nessuna ebbrezza, ma rischio precipizio.
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