“Ferryboat, chi ti disse nel tilefono crittato Don Bastiano?” chiese Amato Quattrocento, detto “Nacatola”, uno degli affiliati del clan Pantisano.
“Era ‘ncazzato assai -rispose Ferryboat-. Mi dissi ca ha preso due ‘nculate, ma non ha voluto giungere altro. Anzi ci ha dato ordina di andarlo a pigliare alla staziona di Rosarno chisto pomeriggio alle quattro. E di usari la panda per non andare nell’occhio agli sbirri. Chi fai? Mi ‘ncompagni tu o chiedo a qualcun altro?”.
“Certo che ti ‘ncompagno io -disse Nacatola- e se ti sta buono guido pure la machina”. “Taccordo -ribattè il compare-, ma quando c’è lui ricortati di parlare solo taliano, ca accussì vuole il boss.
Alle quattro precise gli uomini di Don Bastiano si fecero trovare puntuali alla Stazione. Quando il Capintesta scese dal treno e salì in macchina, anziché lì, i due avrebbero preferito trovarsi sotto una colata di catrame bollente, per quanto era imbestialito il boss.
Sedutosi nella panda al posto di dietro, la prima cosa che fece per sfogarsi fu quella di assestare un memorabile schiaffone a testa ai due davanti e poi attaccò: “Porci, fetusi e figli di una scrofa infetta tutti cuanti. Bello scherzo mi iocarono! Quella minchia molla cornuto di Sisino Maniglia, ‘u “Coccodé” mi rivelò ca aveva na ‘nformazione per farmi fari ‘nsacco di sordi”.
“Mi dissi -continuò- ca a Paola ‘ncè n’accampamentu di zingari Sinti e ca mi potivano vindiri cocaina a tonnellati. Allora io vengo proprio da ‘lla e ‘nci portai pure una ‘nduja i du chili in omaggio. Nta ‘llu schifusu accampamentu ‘ndavia sulu quindici zingari, ca la lordia ‘nci nescia i tutti i parti. Cinque eranu figghioli e dui eranu fimmini.
“Parlai cu ‘u capu di Sinti, di nomi Ivan ,e mi dissi ca era vero ca ‘ndavivanu cocaina purissima, ma eranu sulu ducentu grammi e u prezzu era 9.000 euro. Volia ‘u ‘nci sputu ‘nta faccia a stu bastardu fituso. Ma come? Arrivai fino a Paola ‘pe sta miseria, che dal prezzo si capiscia ca è certamente tagliata, per una cuantità che faccio vendere in una serata, nelle discoteche degli stabilimenti del lungomare di Soverato?”
I due compari, notando che il boss aveva cominciato a parlare in italiano, capirono che si era calmato e tirarono un sospiro di sollievo, quando Don Pantisano continuò.
“Comunqua ho da dirvi due cose. Primus: ca non si ‘pigghia po culu n’omo d’onore e Capobastone come a mia, E secundis, che per ho preso ‘ppuntamento per domenica alli novi in contrata Merici a Locri. Dui loro, schifusi, lordi e puzzolenti, e dui nui. Tutti senza ferri, mitraglie o bumbi a mano”.
“Lì -continuò il Don, riprendendo un poco ad alterarsi , con giustificato tremore dei due compari- avrà luogo lo scangio. A mia ‘stu Ivan mi faceva vommicari sulu ‘mu guardu e non trattai manco sul prezzo. Vuoi 9.000 schifusi euro, ed eu chi pago milioni ai cumpari messicani, 9.000 euru ti porto. Ma non mi scordu di dui gravi sgarbi chi mi facisti, non facendomi trasiri ‘nta chilla fetusa chiavica di rulotta chi chiami “casa” e non offrendomi da ‘mbiviri, comu si usa tra pirsuni per beni e non tra omini e surici di fogna”. La manifestazione d’ira verbale di Don Pantisano, a volte in Italiano altre in dialetto, continuò fino ad Ardore Marina, dove aveva come sua residenza il podere “Fico d’india”, nell’appartata contrada di Schiavo.
“Oggi è venerdì -disse il boss-, cuindi aviamo le ore contate. Ora vi dico due cose. Primus: il fatto che un quaquaraquà come Coccodé mi abbia raccontao una minchiata, che io, come uno ‘mbecilli, criditti vera, devi restare solo tra nui tri, sennò perdu a facci; se cualcuno di voi parla, va a fare compagnia ai calamari e ai totani. Secundis: domani matina fatevi trovare aqquà alle sei pricisi, che ho uno ‘ncarico per ognuno di voi.
Ferryboat e Nacatola se ne andarono più che disorientati, chiedendosi di che umore fosse veramente il boss, dato che alternava italiano quando era tranquillo e, dopo meno di cinque minuti diventava una bestia, e si esprimeva in dialetto. E poi: cosa voleva da loro in una faccenda così delicata? Non potevano usare né la Glock, né la Smith & Wesson e nemmeno la mitraglietta Uzi o il Kalashnikov. E allora cosa dovevano fare? “Noooo io, con tutto il rispetto, a fare cuesta cosa che mi chietete, nelle campagne di contrada Petrazomata non ci vaio. Ho troppa paura ‘ca i porcelli neri selvatici mi mangianu vivu” disse al boss la mattina successiva Nacatola, facendo ricorso fino all’ultima stilla di coraggio che aveva in corpo. “Ah, non ci vai? E guarda bonu chista”. E nel dirlo tirò fuori dal cassetto della scrivania dello studio dove si trovavano, una pistola che sembrava una specie di bazooka. “Cuella che vidi è la pistola più potenti al mondo. Si chiama “Desert Eagle.50 Action Express”, e fa buca di 15 centimetri di diametra. Allura: vai alli campagni di contrata Petrazomata, o la vogliamo provara sul tuo toraci?”.
“Ma chi diti, don Bastianuzzu? Io prima scherzava. -Ribattè Nacatola- Ca cui ‘u vitti mai ‘nu porcellu servatico dove mi mandati? Ora piglio u necessario per dui jorna e vaio subitissimo ‘ncampagna”.
Appena uscito il contrasto onorato, entrò Ferryboat. “Anoressichio -attaccò subito il Capobastone-, per te ho tri ‘mportanti incarichi. Primus: devi andari da cumpari Loredano Saponetta, cuello che ha lo sfascio, e diri a nomi mio di procurarti ‘mmediatamente una Yaris chi documenti a postu e chi camina bonamente, ma chi forzi si devi sagrificari. Loredano è uomo d’onore e non farà stori”. “In secundis, -continuò Don Bastiano- devi trovari na baligetta rigida, dichiamo 20 x 30. In terzis, anche se dovresti girari tutta la costa jonica devi accattari il più grandi vaso di amareni Fabbri chi trovi. Mi sono spiecato buono?”
“Certissimo Don. -rispose Ferryboat, anche se aveva capito il senso di due sola delle richieste fatte-. Entro domenica a sera avrete tutto cuello che cercata”. E si congedò baciandogli la mano per dimostrare che la sua era una promessa che sarebbe stata onorata nei tempi richiesti.
Domenica, puntuali come se il Capobastone avesse dato un orario preciso, alle cinque di pomeriggio, sia Ferryboat che Nacatola si trovarono nello studio di Don Pantisano.
Ferryboat si era già premurato di mettere una Yaris di una decina d’anni grigia e ben messa, in prossimità di un agrumeto distante 50 metri dalla casa, mentre sul tavolo dello studio del Capo ‘ndrina campeggiavano, come richiesto, una valigetta rigida 20x 30 e un grande vaso di amarene Fabbri, mentre ai suoi piedi al lato della scrivania c’era un cestino da pic-nic.
“Questo è per la merenda -disse il boss indicando il cestino,, mentre i due sottoposti restarono muti-. Ora ci organizziamo accussì -continuò-: per prima cosa mi lasciate ‘na mezzorata da solo ‘ca devo riflettera”.
“Poi tornati, ‘spittatti fino e setti e quaranta, vi pigghiati la baligetta dovi ho messo i sordi e andati a Mirici. Mi raccomando ancora, senza ferri, tantu pe chillu chi doviti fari cu dui surici i fogna, vi bastano i mani e l’aiutu chi v’arriverà du cielu”. “Io intanto, sempri per le otto pigliai ‘ppuntamento cu chillu bastardu cornuto di Sisino Maniglia, u Coccodé, che mi ha voluto prendiri po’ culu. Accussì mi fazzu n’alibi”. Prima che i due sottoposti fossero usciti dallo studio, Don Bastiano tirò fuori da un cassetto 9.000 euro e si mise a trafficare con un paio di guanti di kevlar “fontamentali -spiegò- per non lasciari ‘mpronti”. Ferryboat e Nacatola fecero esattamente come aveva ordinato il boss, anche se l’ultimo dei due risultava silenzioso e più pensieroso che mai. Poiché era un po’ tonto, non si chiese nemmeno quali erano le vere intenzioni del boss, ma si premurò di esternare al compare un problema molto più immediato e che lo faceva stare sulle spine.
“Ma tu sei sicuro -disse a Ferryboat- che sia giusto andara senza ferri. Cuelli pistole o fucili c’è li hanno senz’altra. E noi che facimo? Ci faciamo sparari addosso?”. “ Tranquillo Nacatola, mi prenti per scimunito? Don Loredano ha nascosto con la spugna nei poggitesta della machina due picciole Beretta calibra 22. Accussì puru ‘ca li toccano trovano mollo”.
Calmatosi per queste parole, il secondo affiliato entrò in macchina. Erano le 19 e 40, giusto per arrivare all’appuntamento all’ora esatta, non un minuto prima né dopo. Come se si fossero sincronizzati, allo stesso orario Don Bastiano uscì di casa a piedi e senza scorta e si diresse a casa di Coccodè. Arrivati a contrada Merici alle 8 in punto, Ferryboat e Nacatola videro che una Mercedes scassata era già sul luogo isolato dell’appuntamento. Le due automobili, con i fari accesi, si posizionarono a 20 metri di distanza, una di fronte all’altra. Dalle due auto scesero i protagonisti dell’incontro e senza fare presentazioni, dopo essersi perquisiti a vicenda, sia Ferryboat che Nacatola da una parte, che Ivan e il suo compare Sinti, piccolo e dai capelli biondi e unti dall’altra, controllarono le macchine altrui per accertarsi che non ci fossero pistole o fucili nascosti. Quindi, posizionati gli uni di fronte agli altri, Ivan consegnò a Nacatola una busta da freezer piena di polvere bianca e l’altro gli passò la valigetta rigida. Appena il Sinti la aprì, dal denaro accartocciato schizzò fuori una vipera che morse alla mano Ivan. Per dirla con Don Bastiano: “era l’aiuto dal cielo” che era puntualmente arrivato.
Il nomade Sinti non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stava avvenendo che Ferryboat, il quale pesava 146 chili, diede un violentissimo pugno in faccia al biondo dai capelli unti, tramortendolo dopo avergli rotto il naso e avergli fatto sputare quattro denti. A questo punto Ivan, che già cominciava a delirare per il veleno, venne preso dai due uomini di Don Pantisano, caricato nella scassata Merceds e Nacatola, dopo aver aperto il serbatoio della benzina, facendo molta attenzione, vi gettò dentro una sigaretta accesa. Dopo pochi secondi la macchina andò in fiamme e con essa il corpo di Ivan che presto si carbonizzò.
Quindi il biondo dai capelli unti, ancora svenuto, fu legato mani, piedi e bocca con la carta adesiva e sbattuto nella parte posteriore della Yaris. Dopodiché ripartirono per tornare a contrada Schiavo a casa del boss. Nel frattempo don Bastiano suonava alla porta della casa di Coccodè. “Non è possibili! Chi vidinu mai i mei occhia! Don Pantisano in persona chi è venuto alla mia casa. Preco Don, accommitatevi ca vi portu subitu cualcosa da ‘mbiviri. Chi vi aggrada: vino, birra, guischi. Dicitimi chi volliti ca sugnu a disposizioni vostra! E comu mai chista visita graditissima?” Disse Sisino Maniglia, da tutti chiamato “Coccodè”.
“Grazi Sisino -rispose Don Bastiano-, ma ‘ndaiu u stomacu chi mi bruscia. Vinni u ti ringrazio pè l’affari chi mi facisti fari chi cumpari Sinti i Paola. Menzu cuintali mi promettiru e, stai sicuru ca appena m’arriva, cincucentu grammi sunnu pe ìttia. ‘Ntantu ti portai stu vasu di amareni Fabbri, ca sacciu ca u duci ti piaci”.
“Non vi dovivati disturbari, Don: u sapiti ca ‘ndaiu u diabeta”. Rispose Coccodè, ancora emozionato per la visita ricevuta. “N’ammettu rifiuti!” -Ribattè il Capo ‘ndrina’- Chi fai: eu ti portu nu rigalu e tu mi fai u sgarbu mancu mu lapri. Chi ‘ndaiu a pinsari, Sisino?”. “No, no, assolutamenti! Non quivocati, a vui mai nu rifiutu rivolgiarria. U mi mangianu i cani se dicu u farzu!” E sedutosi al tavolo insieme al Don, aprì il vaso delle amarena Fabbri. In meno di un attimo schizzarono fuori due vipere e lo morsero una sulla mano e l’altra sulla guancia. Erano quelle che il recalcitrante Nacatola aveva catturato nelle campagne di contrada Petrazomata, famose per le numerosissime tane di rettili velenosi e che il Capobastone, con i guanti di Kevlan, aveva preso dal “cestino della merenda”e aveva inserito nella valigetta e nella confezione di amarene. Coccodè cadde dalla sedia, già intontito dal veleno ed ebbe solo la forza di chiedere: “Perchì boss?”.
“Perchì si nu fetusu, farzu e pezzu i ‘mmerda! Chi mi volivi pigghiari po culu a ‘mmia ca storia di Sinti i Paola e di quintali i cocaina? Perchì u facisti, surici i fogna e figghiu di ‘na grandissima ‘ndrocchia ‘mpestata?” Urlò con la bava alla bocca il Capobastone.
“Perdunu! Perdunatimi! Eu voliva fari sul una bella ficura ai vostri occhi, facentovi cridiri ca eru ‘nta nu giru grossu e passari rapidamente da contrasto onorato a uomo d’onori con la vostra caranzia di fronti all’attri uomi…” Coccodè non ebbe neanche il tempo di finire la frase, poiché il veleno lo aveva proiettato in uno stato di coma. Don Bastiano restò deluso, dato quanto ancora aveva intenzione di sfogarsi col fu Sisino. Ma il Capo ‘ndrina riprese subito il controllo, raccolse il vaso di amarene e sputò e pisciò addosso al moribondo, evitando di tagliargli la lingua per non lasciare nessun possibile sospetto su tutta la vicenda.
Tornato a Schiavo, trovò ad aspettarlo Ferryboat e Nacatola. “Com’è andata?” Chiese Don Pantisano. “Meglio di così non era possibile!” -Risposero quasi all’unisono i due sottoposti- “Ivan è ‘ncenerito nella sua Mercedes scassiata, Loredano si è ripreso la Yaris meglio di come ce l’aviva data, tranni nu pocu i sangu ‘nto sedili darretu, cuesta è la baligetta col denaro e la coca e cuesto, ‘mpastoiato con la carta adesiva, è il Sinti lordo e fetusu chi l’accumpagava. Di illu chi ‘nci dobbiamu fari?”. “Legalo. -rispose don Bastiano- Anzi no, scioglilo”.
“Nell’acido”.
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