La ’ndrangheta è una preoccupazione della politica? Come i partiti intendono evitare l’ingresso di mafiosi nelle loro strutture territoriali e nelle loro liste elettorali? Le forze politiche hanno la volontà e il coraggio di allontanare dai loro ambienti, se ci fossero, appartenenti a organizzazioni criminali o persone su cui gravano sospetti di vicinanza a gruppi o circuiti di malaffare? Lo scorso venerdì 29 novembre avevamo lanciato, come Corriere della Calabria, un’iniziativa giornalistica per sondare il comportamento dei partiti rispetto al problema delle infiltrazioni nella politica e nelle istituzioni (qui il link). Sul tema, oggi sentiamo Pasquale Tridico, parlamentare europeo e autorevole rappresentante del Movimento 5 Stelle, cui diamo del Tu perché lo conosciamo e dunque per chiarezza verso i nostri lettori.
Professore, avevi letto di questa iniziativa?
Certo. È fondamentale documentarsi su ciò che accade nei territori e, nondimeno, conoscere le azioni d’impatto sociale dell’informazione e della società civile nelle singole aree del Paese.
Preliminarmente, quanto la ’ndrangheta e le mafie in generale rappresentano un pericolo per lo sviluppo del Sud?
«Sono un gigantesco ostacolo per il progresso economico, civile e anche culturale del Mezzogiorno, come peraltro confermano le inchieste delle forze dell’ordine e della magistratura. Per inciso, nel marzo del 2020, il procuratore Nicola Gratteri aveva avvertito che il Covid ci avrebbe messo davanti al rischio di un “aumento del consenso per gli ’ndranghetisti, proprio sul piano della risposta sostanziale che loro riescono a dare”. Il Reddito di cittadinanza, secondo alcuni studi, era riuscito anche a contrastare, proprio durante la pandemia, la possibilità di reclutamento di persone in difficoltà economica da parte delle organizzazioni criminali, che per loro natura sfruttano il bisogno e la disperazione in modo da acquisire nuova manovalanza o alimentare forme di complicità».
E poi?
«Il Reddito è stato cancellato dal governo di centrodestra sulla base di una narrazione falsa e strumentale, analoga a quella che venne utilizzata per abolire nel ’92 la Cassa per il Mezzogiorno, che invece aveva consentito di creare lavoro, redditi e condizioni di benessere, di elevare il livello dell’istruzione nelle regioni meridionali, dunque di ridurre la povertà diffusa. L’azzoppamento dello Stato sociale da parte del governo Meloni espone soprattutto i poveri ai tentacoli della piovra mafiosa. Inoltre, le recenti riforme della giustizia complicano l’azione penale. Ciò significa che le diseguaglianze fra Sud e Nord sono destinate ad aumentare. Nel contesto, il dominio territoriale delle cosche potrebbe quindi rafforzarsi».
Insomma, le mafie vanno fronteggiate anche con misure di riequilibrio sociale?
«Certo. È indispensabile garantire, per quanto possibile, la sussistenza alle persone, obiettivo primario del Reddito di cittadinanza. Mantenere presìdi di legalità, e la presenza dello Stato e del welfare servono anche a questo. Così, le attività statali di controllo dei territori possono essere più agevoli, fermo restando che investigatori e inquirenti devono disporre di strumenti normativi adeguati, sia per individuare infiltrazioni criminali, sia per provarle, in modo che la repressione dei reati di mafia sia efficace e lo smantellamento delle associazioni mafiose possa essere radicale».
Quanto la politica calabrese vuole impegnarsi per impedire l’inquinamento mafioso delle proprie strutture e delle proprie liste elettorali?
«È un grosso problema, attuale e troppo spesso ricacciato nell’ombra. Abbiamo, il dovere di preservare la politica e l’amministrazione pubblica dalla penetrazione mafiosa, che poi si traduce in pressioni e ricatti continui, violazioni sistematiche della legge, condizionamento criminale della vita democratica e degli appalti, drenaggio delle risorse collettive. Alcune indagini, per esempio quelle alla base del processo Gotha, ci hanno posto davanti all’evoluzione della ’ndrangheta, di là dalle relative condanne. La ’ndrangheta, come la mafia, si avvicina sempre di più alla politica, ai quadri del sistema pubblico, alle imprese: attira, struttura e usa per i propri interessi uomini che gestiscono o possono gestire potere, così come privati che forniscono beni o servizi. Il meccanismo è esattamente questo, allora la questione delle infiltrazioni dei partiti, degli uffici pubblici e – aggiungo – delle aziende va posta come prioritaria e affrontata con urgenza».
Pare, tuttavia, che non si una preoccupazione dei partiti.
«Vero, non lo è. Anche se vi sono esempi indicativi di tre diverse situazioni. Alludo alla condanna definitiva per concorso esterno di un ex consigliere regionale, all’assoluzione in Appello di un altro legislatore regionale e alla professione di sostegno elettorale di un candidato al Parlamento, non indagato, da parte del collaboratore di una cosca. Si tratta di vicende che comunque, a prescindere dai dati giudiziari, avrebbero dovuto spingere le forze politiche ad affrontare al loro interno il problema delle ingerenze criminali. Invece non è successo alcunché, in sostanza».
Che cosa vuoi dire?
«Semplicemente intendo ribadire la lezione di Paolo Borsellino, che invitò a separare la responsabilità penale da quella politica dei personaggi pubblici rispetto al crimine organizzato. Accertare la responsabilità penale, spiegò Borsellino, spetta ai giudici; valutare quella politica è dovere del circuito politico, che non può delegare questo compito agli apparati giudiziari e di polizia. Le sentenze ci dicono se qualcuno ha commesso un reato, ma i partiti non possono fondare i loro giudizi etici e di opportunità sulla base delle decisioni dell’autorità giudiziaria».
A un certo punto, cioè, i partiti usano delle sentenze per non fare pulizia interna?
«È una sintesi che rende l’idea. I partiti devono dotarsi di meccanismi di selezione e di vigilanza idonei, che il Movimento Cinque Stelle ha sempre avuto. Infatti, i profili degli aspiranti candidati sono sotto la lente degli iscritti, che in rete possono segnalare incongruenze, dubbi, rischi e addirittura casi di inopportunità. La nuova organizzazione territoriale del Movimento è un’ulteriore garanzia in questo senso, perché c’è un doppio controllo sulle proposte di candidatura e anzitutto un’assunzione diretta di responsabilità, anche del presidente Giuseppe Conte».
Qualcuno potrebbe obiettare che questa è un’impostazione giustizialista?
«È l’esatto contrario. Sto dicendo che non bisogna attendere gli interventi del sistema della giustizia e nemmeno le sentenze della magistratura. Fare pulizia nei partiti è una necessità: non bisogna accettare situazioni borderline. In questi casi, è meglio rinunciare a un candidato».
È un punto di partenza per un ragionamento più ampio?
«Sì. A rileggere, per esempio, la relazione sul recente scioglimento dell’Asp di Vibo Valentia, emergono anni di mancati controlli, di prassi ambientali consolidate che richiederanno lustri, se vi è la volontà, per essere sconfitte e superate. La magistratura e le procedure ministeriali hanno tempi inevitabilmente lunghi. Specie in Calabria, come nel resto del Sud, c’è bisogno di intervenire sul piano etico all’interno delle strutture partitiche come delle amministrazioni pubbliche, legate in vari modi alla politica. Allora vanno individuati e creati gli strumenti della prevenzione. Difatti, l’obbligo di presentare le certificazioni penali a conforto delle candidature è, come agevole comprendere, insufficiente. La responsabilità delle scelte è dei partiti, delle forze politiche. Ecco perché serve una discussione, un lavoro di profondità, di cui dovrebbero farsi carico anzitutto le Commissioni Antimafia del Parlamento e, ove attive, delle Regioni».
Come si potrebbe, poi, contrastare la criminalità organizzata nei territori?
«È una questione di scelte, e le nostre sono molto chiare. Ho già contestato il doppio standard su cui si baserà la politica europea nei prossimi anni: riduzione della spesa sociale e aumento di quella militare. In Italia, per esempio, a partire dal 2025 avremo 12 miliardi di tagli, a fronte di un aumento vertiginoso delle spese per difesa e armamenti, nonostante la grave condizione dei servizi essenziali: scuole, treni, ospedali eccetera. Allora, come abbiamo già proposto, abbiamo due strade da percorrere: massicci investimenti europei per lo sviluppo e il disarmo, di kantiana memoria».
Con quali prospettive rispetto al potere e all’economia riconducibili alle mafie?
«Soltanto alimentando l’occupazione, soprattutto nei territori più dominati dalle mafie, si possono isolare e sconfiggere le organizzazioni criminali, che molte volte assumono la funzione, per così dire, di intermediari finanziari o di uffici di collocamento. Poi c’è la battaglia culturale, e al riguardo è a mio parere essenziale introdurre la Storia dell’impegno antimafia come materia di studio, a partire dalle scuole primarie, le vecchie elementari. Le priorità sono dunque le seguenti: pulizia nei partiti, controlli costanti negli uffici della pubblica amministrazione, aggiornamento della disciplina sulle incompatibilità circa gli incarichi pubblici, investimenti per la transizione ecologica e la crescita economica, rinuncia alle armi e antimafia come programma culturale». (redazione@corrierecal.it)
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