Non solo Milei. A 80 anni dalla morte un libro racconta il calabrese Godino, il più celebre serial killer d’Argentina
Carla Moreno ha raccontato un “reietto leggendario”, “El orejon”, una sorta di mito dell’immaginario argentino

Ha destato inevitabile curiosità e immancabili fastidiosi commenti razzisti sui social il fatto che il presidente dell’Argentina, Javier Milei, abbia avuto la cittadinanza italiana dalla sua ammiratrice Giorgia Meloni in virtù dei suoi nonni italiani, uno dei quali, a quanto pare, antenato del sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi, di idee opposte a quelle del presidente “loco” con la motosega. Non certo una rarità considerata l’enorme presenza di italiani tra la Pampa e la Plata, già c’era stato un presidente calabresissimo come Mauricio Macrì.
Più utile e didattico ritengo invece soffermarci sulla tragica ed esemplare figura di un nostro antico corregionale, Gaetano Santo Godino, che gli argentini hanno spagnolizzato nel nome di Cayetano Santos ma soprattutto rese celebre con il soprannome di “El petiso orejudo” a causa delle enormi orecchie a sventola che svettano nelle foto e nelle statue che raccontano la sua sanguinolenta vicenda.
Godino è il più celebre serial killer d’Argentina, ucciso cent’anni fa, il 15 novembre del 1944, nella sua cella del carcere di Ushaia, nella Terra del Fuoco, e che una controversa leggenda racconta essere stata anche prigione del mitico Carlos Gardel, personaggio fondativo della musica argentina. Oggi il carcere è diventato un museo.

Museo dove campeggia la statua de “el petiso” con cappio in mano per foto ricordo dei visitatori e dove Gaetano sarebbe stato ucciso dai compagni di cella per aver ammazzato due gattini che vivevano con i suoi compagni galeotti, in quel posto alla fine del mondo. Se prendete un vocabolario argentino alla voce “godino” trovate che significa “abusador de menores, deprevado, pervertidor”.
La vicenda torna attuale in Italia per la recente uscita del libro “L’atroce storia di Santos Godino” scritto da Maria Moreno e magnificamente introdotto dalla traduttrice Francesco Lazzarato che lo ha affidato alle stampe dell’editore Edicola. Va detto che la vicenda era stata già resa nota ed evidenziata nel 2002 in un capitolo scritto da Gian Antonio Stella nel suo best seller “L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi” perché a quel tempo l’immigrazione preoccupante con cui fare i conti era quella di oltre Adriatico e il celebre scrittore italiano aveva molto preso le sue notizie dal testo della Moreno pubblicato in Argentina nel lontano 1986.

In Argentina non è mai venuta meno l’attenzione a Godino, infatti proprio in questi giorni una trasmissione televisiva di “acchiappafantasmi” si è recata ad Ushaia alla ricerca dello spettro del giovane serial killer calabrese. Godino, a distanza di tempo, è l’equivalente del mostro di Firenze in Italia, con in aggiunta complicazioni sociali legate alle condizioni degli emigrati italiani di prima generazione. L’Orejudo aveva solo 8 anni quando l’intervento di un poliziotto gli impedisce di uccidere un neonato di 17 mesi. Inizia da qui un racconto dell’orrore di 4 morti e 11 feriti che pone il ragazzino in molte antologie internazionali di serial killer. Rocamboleschi e da grand guignol i racconti dei diversi crimini. A soli 9 anni uccide una bambina seppellendola viva. Il padre, che ancora non sa di avere un figlio omicida, lo consegna alla polizia esasperato dai comportamenti violenti del ragazzino dalle grandi orecchie e lo fa chiudere in riformatorio per oltre due mesi. Ci tornerà poco dopo per scontare altri tre anni. Continuerà a incendiare stabilimenti e vestiti di ragazzine per il piacere piromane di vedere le fiamme e soprattutto cerca di uccidere e continua ad uccidere. Lo incastrano dopo l’assassinio di un bambino attratto in un capannone con delle caramelle e cui ficca un chiodo nella testa a colpi di pietra. Il giorno dopo confesserà agli inquirenti tutti i suoi orrendi crimini. Viene condotto in manicomio, ha solo 17 anni. Inizia il caso Godino che ancora appassiona il dibattitto pubblico argentino.
Scrivono i medici che studiano lo sconvolgente caso che Godino «non sa leggere, sa scrivere solo la sua firma e conosce i numeri fino a 100. Ha poca cultura, ottenuta da educazione riflessa».
Il calabrese Godino è l’emblema dell’italiano brutto con le sue grandi orecchie, sporco e cattivo, anzi mostro. I calabresi immigrati all’inizio della grande migrazione, fatto salvo le dovute eccezioni, sono degli emarginati. Se ne trova traccia nel grande Borges che scrive nel suo “Evaristo Carriago” sorta di viaggio nel luridume sociale della Riachuelo della Boca: «Verso il fiume Maldonado la feccia indigena diradava, e la sostituiva quella calabrese, gente con cui nessun voleva avere a che fare per la pericolosa memoria del loro rancore, per le pugnalate traditrici a lunga scadenza».

Da lì vengono i Godino. Il papà Fiore analfabeta e la mamma Lucia Rufia erano partiti dalle campagne di San Demetrio Corone per approdare nel Barrio Boedio di Buenos Aries, una periferia proletaria dove iniziano a prosperare baracche e povere case. Nel 1896 nasce Gaetano ultimo di altri 8 figli. I medici che studiano e analizzano il giovane Godino riscontreranno 27 ferite al cuoio capelluto e nei verbali sta scritto: “Mio padre beveva sempre. E quando beveva picchiava, Anche mio fratello mi picchiava”.
Fiore Godino, Arbëreshë di Calabria, in Argentina parla il “cocoliche”, uno slang italiano vagamente spagnolo tipico di quell’epoca, è una vittima della transizione tecnologica. L’illuminazione pubblica elettrica di Buenos Aires lo ha privato del suo lavoro di lampionaio. Fiore è un epilettico come alcuni dei sui figli. La scrittrice Carla Moreno nel suo fortunato libro argentino con il suo visionario stile letterario ha raccontato un “reietto leggendario”, “El orejon” è una sorta di mito dell’immaginario argentino che continua a vivere nei fumetti, in film e opere teatrali, libri e come personaggio di romanzi di successo.
La sua letteratura dei margini offre il dilemma morale di scrutare il confine tra vittima e carnefice che viene commentato da un coro “trash” recitato dai detenuti del bagno penale. L’Argentina del periodo è assillata dalla criminalità giovanile italiana, nel 1912 arrivano altri 274 000 emigrati, elementi che alimentano una campagna xenofoba sui giornali che ricordano quelle di oggi di Libero e il Tempo.
“El petiso orejudo” ha permesso alla criminologia lombrosiana di diventare all’epoca in Argentina “l’arma efficace per intimidire tutte le varianti della miseria e per dare alla xenofobia un aspetto di scienza”. Santos Godino diventa oggetto di scontro tra i medici che lo studiano mai andando al fondo dei suoi problemi sociali. La misura della testa, le sue grande orecchie, il suo enorme membro sono analizzati ed esposti sui giornali a vantaggio dell’antropologia criminale del tempo. Santos prima incapace di intendere, poi “migliorato” dal manicomio arriva nel terribile reclusorio della Terra del Fuoco a 27 anni. Qui nel 1944 i suoi compagni di carcere lo cerchiano di botte per la morte violenta dei gattini. Come in un romanzo di Marquez in 22 anni di carcere non ha mai ricevuto una visita da nessuno, negli ultimi 11 anni mai una lettera dai familiari ritornati in Italia. Alla sua morte i suoi resti e le sue celebri orecchie furono trafugati dal personale carcerario.
Ad un secolo di quei fatti la comunità italiana d’Argentina e con essa quella calabrese è completamente integrata ed è diventata classe dirigente. Ma a fronte dei tempi complessi d’oggi la vicenda di Godino è ancora giusta da raccontare per far sapere che c’è stato un tempo in cui i nigeriani eravamo noi italiani. I calabresi più degli altri. (redazione@corrierecal.it)
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