COSENZA Nel 1958 il Pum (partito unico del mattone) esisteva già e in consiglio comunale decise che Cosenza non era più zona sismica, così i palazzi iniziarono a lievitare…
Le origini – o forse è il caso di dire le fondamenta – di un fenomeno che molti cosentini credono recente affondano in realtà nella piccola città del boom edilizio del dopoguerra: con uno slancio di politica creativa, infatti, i consiglieri comunali di Cosenza sovvertirono in un certo senso i regi decreti che a inizio secolo avevano classificato “sismica” la città, anche a seguito dei devastanti terremoti che colpirono la regione l’8 settembre 1905 e il 28 dicembre 1908. Il numero massimo di piani consentito era di due più cantinato.
Il capoluogo bruzio, nella successiva suddivisione in categorie sismiche datato 1927, si “piazza” in seconda categoria: il numero dei piani sale a 3. Dieci anni dopo l’altezza degli edifici e il numero dei piani vengono limitati a seconda delle tecnologie, ma si stabilisce che nelle città in seconda categoria come Cosenza gli edifici in muratura non possono superare i 4 piani oltre alle cantine e quelli in cemento armato i 5 piani.
L’impasse che segue a quel primo impulso normativo, dal 1939 al 1972, è quello che l’ingegnere cosentino Antonio Trimboli ha definito di recente, nel corso di una lectio pubblica, «un vuoto legislativo e un pieno di cemento»: nel quindicennio 1921/1936 Cosenza aveva registrato un aumento demografico di 10mila abitanti (da 30mila a 40mila) e anche per questo qualche anno dopo era partito il progetto di risanamento della città vecchia e la contestuale espansione a nord con tanto di incentivi fiscali (Piano regolatore Tommaso Gualano, 1939).
La deregulation parte con la fine della guerra: dopo il 1945 arrivano i costruttori per realizzare i nuovi «alloggi». Anche usando il cemento armato, essendo Cosenza in seconda categoria sismica come detto, non si possono fare più di 5 piani. La prassi diviene realizzare il sesto piano e poi trovare un motivo qualsiasi per giustificarlo. I lavori venivano sospesi immediatamente dalle Istituzioni e venivano notificate le sanzioni di legge al costruttore, il cui avvocato si opponeva subito alla sospensione dei lavori dichiarando che l’ordinanza prefettizia era illegittima in quanto il decreto penale di condanna ordinava la sospensione dei lavori entro 30 giorni dalla notifica, ma ancora ne erano trascorsi soltanto 5, ed ammoniva che nel cantiere lavoravano circa 100 operai che sarebbero stati licenziati senza un valido motivo.
Una seconda casistica prevedeva che il Comune desse il consenso per la costruzione del sesto piano giustificandolo con «speciali esigenze, quali la necessità delle costruzioni a carattere intensivo per pubblica economia sui servizi di pubblico interesse (fognatura, rete idrica, pubblica illuminazione)». Il Genio Civile inviava al Ministero il progetto per sottoporlo al Consiglio superiore dei Lavori pubblici per la eventuale concessione in sanatoria alle deroghe in relazione alla maggiore altezza e al maggior numero di piani per consentire il completamento della costruzione. E il Tribunale? Decretava che «la demolizione consegue alla condanna sempre che non si accerti che il fabbricato dia garanzie di sicurezza, ma quando, come nel caso, trattasi di fabbricato in cemento armato che offre la massima garanzia, deve trovare applicazione la giurisprudenza di questa Pretura, confermata dalla stessa Corte Suprema, sulla non necessarietà della demolizione».
Ma siccome non c’è due senza tre, un’ultima evenienza vedeva costruttore e tecnico annotare che «durante la costruzione è nato un problema di grande importanza, problema che purtroppo viene quasi sempre trascurato nell’Italia meridionale. Il problema è prettamente igienico e riguarda i lavatoi e gli stenditoi. La pianta che si allega rappresenta quindi un certo numero di locali coperti forniti di ampi lavatoi in comunicazione diretta con una grande terrazza coperta da adibirsi a spanditoi». È il sesto piano sotto mentite spoglie, approvato dall’ufficio tecnico che però chiarisce: «pur rilevando la forma sgarbata della relazione che accompagnava il precedente progetto e rilevando altresì che i lavatoi non sono né ignorati né trascurati dagli ingegneri architetti e geometri cosentini».
Per evitare questi balletti ecco che – zac! – i consiglieri comunali di Cosenza decidono di recidere i legacci per favorire la cementificazione, con buona pace del rischio sismico: «Il Consiglio Comunale nella tornata del 20.11.1958, con voto unanime ha chiesto alle Autorità competenti di depennare la Città di Cosenza dall’elenco delle zone sismiche di 2ª categoria per consentire la costruzione del 6° piano su quei fabbricati aventi i requisiti e le caratteristiche idonee».
Nei decenni a seguire si moltiplicano così «numerosi fabbricati a sei piani per cui motivi di estetica cittadina e di urbanistica impongono l’accoglimento dell’istanza» e si subordina «il rilascio della licenza di costruzione, relativa al solo sesto piano, e di ogni altro certificato, a dopo che sarà intervenuta la autorizzazione del Consiglio Superiore dei LL.PP. prescritta dall’art.11 della legge sismica n° 2105 del 22.11.1937».
Sono i palazzoni che anticipano la torre su viale Mancini, il cosiddetto “Goldrake” di corso Umberto su cui alcuni attivisti hanno chiesto l’accesso agli atti e il nascituro mega hotel su via Popilia: se qualcuno si lamenta oggi delle colate di cemento che stanno tombando Cosenza, coprendone spazi e cieli con esiti più o meno discutibili, sappia che nasce tutto in quella seduta del 20 novembre 1958. Con un voto unanime che – negli anni della contrapposizione Dc-Pci – racconta perfettamente la nostra piccola città di provincia. (e.furia@corrierecal.it)
Nella foto di copertina la Torre Arborea in costruzione nel tratto sud di viale Mancini/via Popilia
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