Il paese presepe è finito per sempre. Dopo l’Epifania non vanno via le feste, ma le persone tornate che hanno creato l’illusione che il paese continui a vivere. Forse non ci resta, come diceva Alvaro, che custodire memorie. Forse bisogna rendere le memorie sovversive. Nell’anno in cui ricorrono i 130 anni della nascita di Alvaro, che cercheremo di ricordare in vari modi, segnalo un suo scritto sul Natale di inizio Novecento. “Natale era dunque venuto. I ricchi si facevan mandare torrone e dolci dalle città, il popolo aveva conservato olio, fior di farina e miele; e tutte le case fin dalla Vigilia fumavano allegramente e per l’aria c’era odore e stridore di olio vergine, i ragazzi avevan conservato la cera per fare la pallottolina dei pifferi di canna, nelle case si erano puliti bene i lumi attendendo che le campane snodassero quel loro canto frettoloso che chiamava a raccolta. E le campane suonarono. Allora da tutte le case, dai casolari bassi, dai palazzi alti, dalle capanne sparse nelle valli, le famiglie si precipitarono sul davanzale delle finestre tendendo un lume e prosternandosi. C’erano i lumi ad acetilene del sindaco, c’erano quelli un po’ fiochi, un po’ rossastri delle lampade ad olio da certe finestre che si aprivano una volta al mese, quando il pastore tornava dalla montagna e la famigliola una volta tanto non andava a letto al buio ma accendeva un tocco di resina o di barabasso. I lumi sparirono, le finestre si chiusero, gli usci si serrarono e si capiva che il paese a quell’ora mangiava, aspettando di andare a messa. Il primo a rompere il buio e il silenzio fu lo zampognaro: si snocciolò lungo la via principale, dai vicoli scuri una fila di donne raccolte, colle mani sul seno, una dietro l’altra. Le fiaccole di resina illuminavano la via, i vetri della chiesa erano rischiarati, il presepe splendeva. I ragazzi facevan ressa sui gradini dell’altare e soffiavano nei pifferi di canna, le donne intonavano il canto limpidamente”.
x
x