Continua a persistere, e si ingigantisce con il tempo, una frattura evidente tra i pilastri costitutivi – le ragioni dell’esistenza e della piena funzionalità – degli ospedali di montagna e l’inadeguatezza del sistema, del quadro normativo soffocato nelle contraddizioni. È forte, infatti, il divario tra il fine ultimo di questi particolari presidi sanitari (al riparo dall’ombra lunga delle rivendicazioni politiche, evidentemente una conquista) votati istituzionalmente ad assicurare l’accesso alle cure ai residenti, già esposti al rischio delle distanze dalle realtà ospedaliere urbane, e i limiti scientifico-giuridici che, spesso, non vanno nella stessa direzione.
Tale divergenza appare come una matassa difficile da sbrogliare: nel verso, il potenziale di emergenze possibili legate ad attività a cielo aperto; la celerità dell’intervento in caso di acuzie o incidenti (che possono accadere anche contestualmente); l’incidenza statistica, soprattutto nelle aree interne, della popolazione anziana residente, trend progressivo, purtroppo, destinato a crescere; il peso strategico in materia di prevenzione, formazione e sensibilizzazione; il mantenimento dei servizi di base che hanno riflessi su zone, per natura, isolate, servizi deputati a diventare inevitabilmente punti di attrazione sociale per l’inscindibilità, lo stretto legame con la qualità della vita.
Nel recto, invece, si consuma il senso del cortocircuito che ostacola la fluidità del meccanismo. Il riferimento è al punto dolente delle urgenze, in particolare in presenza di casi gravi acclarati e diagnosticati con la dovuta tempestività. In questo senso, il caso del giovane di San Giovanni in Fiore, Serafino Congi, deceduto nei giorni scorsi, a seguito di una serie di circostanze, coincidenze e determinazioni al vaglio di indagini dell’azienda sanitaria di riferimento e in corso, ad opera della magistratura, un caso che ha destabilizzato un’intera Comunità, impone una seria e importante, nuova e urgente riflessione che non si può restringere sul piano di una querelle, di una sterile vexata quaestio locale.
Qual è il punto dirimente? In presenza di difficoltà di medici disponibili a prestare servizio in alcune aree geografiche, dai presidi sanitari non molto ambìti; in considerazione di procedure concorsuali che sembrano dettate da autoannientamento per assenza di candidati o inadeguatezza del numero idoneo per la copertura dei posti, sebbene in provincia di Cosenza ci sia la novità della facoltà di medicina, di nuova istituzione, che dovrebbe invogliare per gli stimoli, i contatti e le ricadute scientifiche sull’esercizio della professione anche in periferia, la direzione, forse, nelle more e verso la delineazione di un regime ordinario, la normalizzazione, può essere quella di fare chiarezza intorno alle prerogative, alle possibilità, al raggio d’azione e d’intervento degli infermieri. Che, dopo la riforma, a seguito di un ciclo di studi universitari, maturano il titolo di dottore, fino a prova del contrario. Conseguendo, a completamento di un percorso di alta formazione, specializzazioni, master, fino a proporsi come altissime professionalità, senza cadere nella sciocca e inutile perequazione al profilo di medico, sia chiaro.
Un infermiere specializzato è, perciò, all’altezza di agire consapevolmente in presenza di situazioni critiche a bordo di ambulanze medicalizzate, tecnologicamente sofisticate ed equipaggiate con dispositivi e l’armamentario strumentale di base. Un infermiere bravo, anche in relazione alle possibilità offerte dalla telemedicina e dallo stretto contatto con la centrale operativa, può procedere, con cognizione di causa, in caso di necessità di stabilizzazione dei pazienti, somministrazione di farmaci, controllo e monitoraggio dei parametri vitali.
In altri termini, le competenze avanzatissime degli infermieri, in particolari casi di emergenza, possono colmare lacune depositarie dell’assegnazione della vita di una persona a un esito, piuttosto che, infaustamente ad un altro, come registra la cronaca, non di rado, per casistica, ipertrofica e inflazionata.
Indugiare non serve a nessuno; non servono gli apostoli passatisti o che predicano in solitudine a rimarcare discontinuità presunte né occuparsi del dito in luogo della luna. Urgente è sanare e regolare un dibattito normativo che non può non investire Governo regionale e Legislatore, intorno alla revisione e al chiarimento della violazione delle normative sanitarie, della responsabilità penale che pende sempre come una spada di Damocle, dei non meno pesanti nodi legati alle controversie assicurative. Per affrancare, così, da dubbi e perplessità d’azione gli operatori che hanno il gravoso e delicatissimo compito di decidere, con sicurezza e celerità, nelle postazioni di Pronto soccorso. Bisogna farlo, e anche presto.
Nessuno sarebbe potrebbe esimersi da responsabilità, se imitassimo i romani che, mentre discutevano in Senato, lasciavano che Sagunto venisse espugnata.
La salute è un diritto, non calcoli. O pelosi arzigogoli.
*Professore di Letteratura italiana
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