Sant’Agata d’Esaro: il borgo dei ritorni tra tango, memoria e rivoluzioni gentili
Le piazze diventano teatri d’esistenza condivisa, lontani anni luce dalla solitudine digitale. Si discute del tempo, dell’amore, del senso. Di ciò che resta. Nessuna connessione, se non quella tra le…

C’è un paese nel cuore del Cosentino dove il tempo si ferma come un respiro sospeso tra sogno e memoria. Sant’Agata d’Esaro, avrebbe detto Franco Battiato, si visita e in primo luogo si ascolta. Tra i vicoli che serpeggiano come vene antiche, le pietre restituiscono parole, i muri sussurrano storie di innamorati, partenze, ritorni. Le case sembrano pronte da anni ad accogliere chi ha lasciato tutto con una valigia leggera e la nostalgia cucita nell’anima.
Succede, a volte, che l’improbabile si avveri. Più di 30 ragazzi dell’Argentina – figli e nipoti di chi emigrò da qui negli anni Cinquanta e Sessanta – sono tornati a Sant’Agata, chiamati da un senso di appartenenza che non ha mai conosciuto frontiere. Cercavano origini, hanno trovato una comunità. Il borgo li ha accolti come si fa con gli amori veri: in silenzio, con un abbraccio interminabile, quello di una terra che conosce il dolore della partenza e la speranza del rientro.

Qui il tango non è folklore. È invece pelle, respiro, modo di camminare. È la lingua segreta dei legami interrotti che provano a ricomporsi. È il passo dell’attesa. È un universo che si materializza come nell’Aleph del grande Borges. Se oggi questi giovani vivono in paese, lavorano negli agriturismi, frequentano scuole, cucinano peperoni e patate con l’attenzione dei riti, lo si deve soprattutto a un uomo: Tullio Laino, medico in pensione, memoria vigile e affettuosa del posto. Tullio ha utilizzato il proprio sapere come strumento politico e assieme di cura. Senza proclami, ha guidato quei ragazzi tra archivi, uffici, pratiche, ostacoli. Soprattutto, li ha condotti tra le pieghe del paese, dentro le parole del dialetto, nei silenzi della montagna. Con la naturalezza di chi non ha mai smesso di appartenere a un luogo e, per questo, lo restituisce agli altri.

La sua opera, però, non si è fermata lì. Grazie alla sua capacità progettuale e alla fiducia che ha saputo infondere, Sant’Agata avrà presto una piattaforma per l’elisoccorso: un’infrastruttura essenziale, pensata per salvare vite, che si inserisce con rispetto nel paesaggio montano. È una promessa mantenuta. Insieme alla figlia, l’archeologa Antonella Laino, il buon Tullio ha peraltro catalogato oltre 20mila reperti di un passato lontanissimo provenienti dall’area della Grotta della Monaca: un santuario di pietra incastonato nella montagna, un tempo rifugio preistorico, poi miniera di ferro, dopo luogo di culto e mistero. Qui, millenni fa, donne e uomini scavarono nella roccia, cercarono il metallo e in seguito il significato del vivere. Ossa, utensili, resti cerimoniali raccontano un tempo senza scrittura ma pieno di senso, che la scienza e l’amore per la storia stanno riportando alla luce.

Nel perimetro urbano c’è un agriturismo intitolato ai briganti, dove alcuni dei ragazzi argentini lavorano. È una casa di pietra con i profumi forti della Calabria più vera. Gli arrosti crepitano tra fiamme vive, il rosato locale colora i bicchieri, le parole scivolano lente come l’olio sui pomodori veraci. Si mangia così, con rispetto. I peperoni fritti sono un atto d’amore, le patate raccontano l’inverno e le mani di chi le ha raccolte. È una cucina che non ha bisogno di interpretazioni e parla una lingua universale. Sant’Agata ha deciso di non scomparire. Ha scelto la bellezza come argine e la cultura come forma di resistenza. Il Vicoletto delle Timpe è una poesia collettiva fatta di piastrelle dipinte, frasi lasciate in dono, immagini di corpi che si cercano. C’è anche il matrimonio “alla cannistra”, una forma antica di unione sentimentale, senza registri né altari, che oggi sembra un’anticipazione civile. La Via del Cinema ospita invece i murales in bianco e nero di Castellaura, nome d’arte di Laura Castellucci, artista giovane ma già piuttosto matura. Nata e cresciuta a Sant’Agata, figlia di una pittrice riconosciuta in zona, Laura ha riscoperto la propria vena pittorica proprio durante il periodo del Covid: nel silenzio e nell’isolamento forzato, mentre il mondo si chiudeva, lei apriva finestre di bellezza sui muri del paese. I primi murales dedicati al cinema sono stati un modo per resistere alla tristezza, per ricostruire un legame con la propria terra. Oggi Laura si sta perfezionando in Storia dell’arte all’Università della Calabria, con il desiderio di fondere la pratica creativa con la consapevolezza critica, in un percorso che tiene insieme radici e futuro. Nella chiesa madre dell’Annunziata ha già lasciato il segno con alcune opere religiose; per esempio un ritratto di santa Rita e uno del Cristo illuminato, in linea con la spiritualità del luogo.

In questo paese affascinante, c’è addirittura un’enoteca comunale dedicata ai vini della Valle dell’Esaro. E c’è un belvedere, al termine delle “Magurelle”, dove il cuore rosso scolpito nel ferro guarda le montagne, come un gesto d’amore che si dichiara alla natura. È da lì, davanti a un ulivo taggiasco che simboleggia un gemellaggio con la Liguria, che si capisce tutto: Sant’Agata non resiste, si reinventa. Ogni autunno, poi, in una sinfonia di colori caldi e profumi boschivi, si celebra la Sagra della Castagna, una festa collettiva in cui la montagna scende nel centro abitato. Si cuociono caldarroste nei bracieri, si preparano dolci antichi con miele e farina di castagne, si balla nelle piazze. È una sagra che racconta l’identità del luogo: la terra come madre, la comunità come famiglia, il gusto come linguaggio condiviso.
E poi c’è l’altra faccia del borgo, quella che accende la fantasia e alimenta leggende: la casa dei fantasmi in via Roma, un’abitazione abbandonata che molti evitano di attraversare da soli, specie dopo il tramonto. Qualcuno giura di aver sentito rumori inspiegabili, passi sulle scale, voci sommesse. Altri raccontano di finestre che si aprono da sole e luci che appaiono e scompaiono. È una casa che sembra trattenere memorie irrisolte, affacciata su un tempo che non passa. Una presenza muta e potente, che ricorda come, anche nei paesi più solari, l’ombra abbia la sua parte. E poi c’è l’estate. Sempre ventilata, mai afosa. Una brezza leggera accompagna le serate sotto le stelle. Giovani e anziani siedono insieme sulle panche, ai bordi delle strade, davanti ai portoni. Parlano della vita, ballano senza vergogna, ascoltano musica di qualità. Le piazze diventano teatri d’esistenza condivisa, lontani anni luce dalla solitudine digitale. Si discute del tempo, dell’amore, del senso. Di ciò che resta. Nessuna connessione, se non quella tra le persone.

In questo posto dello spirito, può anche capitare che il sindaco – Mario Nocito, geometra, persona semplice, affezionata profondamente al suo paese – venga a cercarti, non già per parlare di atti, fondi o doglianze ma per raccontarti un sogno. No solo. Il sindaco ti invita a camminare, magari fino alla seduta davanti ai pioppi della piazza, e lungo il tragitto ti confessa che vorrebbe vedere Sant’Agata fiorire per le nuove generazioni, che desidera proteggerla, mostrarla, valorizzarla per quello che è: un piccolo miracolo di convivenza e umanità, che meravigliosamente continua a vivere in analogico, fuori dal rumore, dentro l’essenziale. A uno sguardo distratto può sembrare un paese come tanti. Ma chi si ferma, chi cammina con lentezza tra i suoi vicoli, avverte che qui accade qualcosa di raro. La rinascita prende la forma delle cose semplici: una mano tesa, una voce che traduce, un piatto diviso in due e l’affetto smisurato della moglie di Tullio, la maestra di tutti Rita Martorelli, alias “zia Rita”, e la cortesia antica dei passanti del posto. Sant’Agata è il ritorno di chi partì ed è pure il ritorno del senso, della comunità, dell’umanità che si fa progetto. In un’Italia frenetica che smarrisce i paesi e liquida le storie, Sant’Agata sceglie la tenerezza. E da qui, forse, riparte il mondo. (redazione@corrierecal.it)
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