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Lettere dalla prigionia: il grido di aiuto di Cristina Mazzotti, uccisa dalla ‘ndrangheta

Si sta celebrando il processo contro i mandanti dell’omicidio. Le missive scritte dalla ragazza, rapita e morta a 18 anni, gettano nuova luce su uno dei sequestri simbolo degli anni Settanta. Oggi la…

Pubblicato il: 09/07/2025 – 7:17
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Lettere dalla prigionia: il grido di aiuto di Cristina Mazzotti, uccisa dalla ‘ndrangheta

«Caro papà, mi hanno fatto scrivere le condizioni per il mio riscatto. Sono stremata, aiutami. Se puoi, fai presto. Ti bacio tanto. Saluta la mamma e tutti gli altri».
Sono frasi brevi, angoscianti, scritte su un semplice foglio bianco. Parole che oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, tornano in aula e ci riportano a un’Italia attraversata dai sequestri di persona, quando la ’ndrangheta alimentava il proprio potere attraverso i rapimenti e i ricatti.
Cristina Mazzotti, 18 anni, fu rapita il 1° luglio 1975 a Eupilio (Como), mentre si trovava con alcuni amici. Per quasi un mese rimase nascosta in condizioni disumane, rinchiusa in una fossa sotterranea. Il suo corpo fu ritrovato in una discarica a Galliate, in provincia di Novara. A stroncare la sua giovane vita, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Antonino Cuzzola, fu un sovradosaggio di calmanti: le somministrarono Valium e pastiglie per tenerla sedata, perché si ribellava e gridava.
Durante l’ultima udienza del processo attualmente in corso a Como, tenutasi mercoledì 2 luglio, gli avvocati della famiglia, Fabio Repici ed Ettore Zanoni, hanno consegnato alla Corte d’Assise le lettere scritte da Cristina durante la prigionia. Scritti toccanti, che trasmettono paura e speranza.
«Sto male e soffoco. Se non paghi subito mi uccideranno. Fai presto, voglio rivedervi».
In un’altra comunicazione, Cristina dava precise istruzioni al padre su come procedere per la consegna del riscatto: «Parti da Erba alle ore 19 del martedì 29. I soldi li deve portare una sola persona. (…) La macchina deve essere munita di portapacchi con sopra un sacco visibile coperto con uno straccio bianco. (…) Durante il tragitto improvvisamente vi comparirà un bastoncino con appesi due stracci, uno bianco e uno rosso. (…) La sorte di vostra figlia è nelle mani della vostra prudenza».
Queste lettere, rimaste a lungo inedite, sono ora parte integrante di un nuovo processo che cerca di fare piena luce sui mandanti del sequestro.
Il primo processo si celebrò a Novara e si concluse il 7 maggio 1977 con ventidue imputati alla sbarra. Tredici furono condannati, otto all’ergastolo. Tra loro i carcerieri Giuliano Angelini e Loredana Petroncini, il contrabbandiere Libero Ballinari, Gianni Geroldi – che si occupò di occultare il corpo –, Achille Gaetano, che avrebbe ideato il rapimento già nel 1974, la carceriera Rosa Cristiano e Franco Gattini, che incassò il riscatto. Pene pesanti anche per altri: trent’anni per Alberto Menzaghi e Bruno Abramo, ventisei per Giuseppe Milan, ventitré anni e mezzo per Vittorio Carpino. Altri imputati ricevettero condanne comprese tra cinque e sei anni e mezzo. In appello le condanne vennero in parte ridotte: gli ergastoli scesero da otto a quattro, mentre altri imputati ricevettero pene tra i venti e i trent’anni. La Cassazione confermò l’ergastolo per Angelini, Ballinari, Geroldi e Gaetano.
Ma la giustizia non si è fermata. Il 24 settembre 2024, si è aperto un nuovo capitolo giudiziario davanti alla Corte d’Assise di Como: il processo contro i presunti mandanti del sequestro. Sul banco degli imputati figurano figure storiche della ’ndrangheta: il boss Giuseppe Morabito e tre uomini oggi ultra settantenni – Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia – già ritenuti esecutori materiali del rapimento.
Oggi in aula, sarà il turno della requisitoria del pubblico ministero Cecilia Vassena, che tirerà le fila di un’indagine lunga mezzo secolo. (f.v.)

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