La Svizzera è una bugia
Nel dibattito sulle aree interne, un racconto fra realismo e fantasia

L’acqua quel giorno di dicembre cadeva con un suono di rabbia. E il cielo di piombo aveva una fretta pazzesca, da assassino impacciato. Pioveva da giorni, ininterrottamente, e i due morivano aggrappandosi alla terra fradicia.
D’inverno, nel fango, rendevano l’anima a Dio. Tra l’ira del vecchio e l’ultimo respiro dei due figli, nessuna possibilità di tornare indietro. Un inizio, e giù l’inferno. E la pioggia, a coprire l’orrore. Lui, il vecchio padre, resosi conto che la vita dei suoi figli non pulsava più, s’è accasciato febbricitante. Le braccia penzoloni, la schiena contro un tronco di quercia che, dopo tanti anni, è ancora lì. E a vederlo, nei pomeriggi gelidi che non si scorge un cane, viene di parlargli. Chiedergli conto della zuffa finita nel sangue. Com’è iniziata, se poteva essere evitata.
Il vecchio è rimasto sotto la pioggia scrosciante per ore. Ci sarebbe rimasto per giorni, se Berto, il postino, pancia tonda e piedi piatti, non fosse passato di lì con la sua catarrosa Fiat 600.
I palmi delle mani aperte affinché l’acqua li ripulisse, e la giacca nera di velluto grezzo lorda del sangue dei suoi figli sventurati.
Accadde molto tempo fa
La televisione in paese era arrivata da poco, solo il droghiere, Lucio Ritrovato, ne possedeva una. A sera in gruppo bussavamo alla porta della sua casa per riempirci gli occhi d’ immagini e quel miracolo ci spalancava le bocche. Avevo, credo, nove anni. Ed ora che ci penso, non eravamo niente, eppure il tarlo dell’infelicità non ci aveva ancora agguantato.
A scuola facevo di nascosto con la biro dei pertugi nel banco di legno, e con Cola ogni giorno era una sfida: il mio è più profondo del tuo. Una mattina per fortuna il maestro se n’accorse, e le sue mani, piccole e tozze, s’aggrapparono come tenaglie alle nostre orecchie. Poi, mettendo in mostra il dente d’oro nella bocca sormontata da labbra grinzose, ci predisse un sicuro insuccesso nella vita. Non so se ha avuto ragione, può darsi.
Di alcuni non ho saputo più nulla
Di molti so che campano in città lontane, ma nient’altro. Altri sono nella tomba da un pezzo, quelli che sembravano più quieti. Al fresco del cimitero del paese, dove ognuno, fin da ragazzo, desidera spassarsela in pace. Ecco un punto su cui non c’è discussione. La morte ci prenda dove meglio gli aggrada, lieve o feroce, ma guai a non seppellirci nel nostro cimitero. Nella terra nuda, una croce e una foto con data di nascita e morte, sotto faggi secolari e pietosi cipressi. Finalmente, da morti, avremo il tempo tutto per noi. Niente che ci possa più separare. Berremo birra fredda e giocheremo a patruni e sutta, fino a sera tardi, in estate. In inverno, dinanzi alla fiamma scoppiettante di un focolare, racconteremo storie fantastiche, e se qualcuno vorrà andarsene sarà soltanto per qualche ora. Nell’aldilà si torna sempre, perché non c’è ragione d’andar via e non c’è neanche un prima e un dopo, una pacchia!
Ma ecco, sì, il maestro col dente d’oro
Meno male che se n’accorse in tempo. Altrimenti, prima o poi, il banco si sarebbe trasformato in un gigantesco buco con noi dentro, a scavare, fino a farci risucchiare dalle profondità della terra. È andata così, in quel mondo sperduto, più di sessant’anni fa. Da allora, però, mi è rimasta l’impressione che la vita di molti di noi fosse precisamente come quel buco nel banco di legno. Da impercettibile, giorno dopo giorno, diventava l’abisso in cui s’assottigliava ogni respiro. Fino a trasformarci in corpi strappati dalla radice e pronti ad ogni viaggio. Plasmati dal caso. Dimenticati, come questa storia che, se non la rammentassi io, resterebbe sepolta nei boschi selvaggi delle Serre calabresi. Annusavo l’aria come un cane da caccia e correvo per la campagna a tutte le ore. Per andare al catechismo passavo accanto al cimitero, e poi infilavo un grande cancello sorvegliato da un cane lupo che abbaiava come un satanasso. Siccome non avevo voglia di sentire le litanie di suor Concetta, spesso mi perdevo nei boschi. Sfinito, mi sdraiavo sotto una quercia e sognano ad occhi aperti il treno che un giorno mi avrebbe portato nelle ricche città svizzere. Serravo gli occhi e immaginavo palazzi svettanti che mi facevano sentire più piccolo di quanto non fossi. A sera, il cimitero infestato di fantasmi ed il cane lupo, mi servivano per temperare le urla di mia madre, quando dovevo confessare di aver evitato l’incontro con Dio.
Con voracità, masticavo cioccolato fondente
Mio zio Nicola, ad ogni ritorno dalla Svizzera, mi portava delle lunghe tavolette di cioccolato. È per lui! diceva a mia madre. Io mi sentivo fiero. Quella cioccolata l’aveva comperata per me, in Svizzera, in un certo senso anch’io incominciavo ad essere parte di quel mondo misterioso. Significava che un giorno m’avrebbe chiesto di andare con lui: fai la valigia, domani si parte! Non aspettavo altro. Mio cugino Peppino mi avrebbe dato i primi consigli, lui che da anni seguiva il padre, e quando in paese voleva fare lo spaccone parlava in tedesco. Sposò una svizzera, dopo la morte di mio zio, e non tornò più. Mangiavo cioccolato io, mentre gli altri intorno a me partivano, come se partire fosse un ineluttabile destino. I vecchi morivano e le primavere scivolavano sugli inverni freddi, io mangiavo cioccolato e correvo per le vie di un paese sempre più ovattato.
Mangiavo cioccolato svizzero e m’intrufolavo nell’osteria, le sere d’inverno, a vedere i grandi giocare a carte. E ogni volta, dopo che molto vino era stato tracannato, scoppiava una lite. C’era sempre qualcuno che minacciava di scannare qualcun altro, e più volte m’ è capitato di vedere scintillare le lame affilate dei coltelli. A notte fonda, i dissapori più ostinati proseguivano fuori dall’osteria, dove il freddo sferzante, schiarendo l’ubriachezza, trasformava contadini carichi di fatica in duellanti pronti a sbudellarsi in piazza del popolo, per una parola di troppo, uno sguardo molesto, un rancore antico mai scordato.
Un giorno si sparse la voce della morte di mio zio
Nel cantiere dove sgobbava, nella Svizzera tedesca, una trave gli era crollata addosso e l’aveva ucciso sul colpo. Così è andata. La morte è priva del senso di giustizia. Se n’infischia d’ogni logica e fa il suo merdoso lavoro senza rispettare niente. Da quel giorno, mio zio divenne un’ombra che mi teneva compagnia. Lo vedevo nei vicoli del paese e, sorridendo, mi diceva: cresci! cresci! Mi fermavo a fissarlo. Senza dire una sola parola. Con la mano destra s’aggrappava alla fontana vecchia della piazza, beveva ed esclamava: che bell’ acqua c’è qui, altro che la Svizzera! Svoltava l’angolo, dopo avermi detto: quando vuoi, sai che c’è un posto anche per te in Svizzera. Ma io non mi entusiasmavo. Per me, la Svizzera era diventata un inganno mortale, e forse neanche esisteva. Non capivo più. L’avevo desiderata fino a non dormire la notte, ed ora, improvvisamente, la Svizzera mi sembrava una bugia. Una grande balla, per fotterci tutti. Uno ad uno. Non avevo più voglia di partire. Volevo indispettire il destino. Mio zio una volta mi disse, con la sigaretta tra le labbra: io non parto più, per questo mi vedi sempre. Io crescevo, ma non mangiavo più cioccolato. Mi bastava il l mio mondo di fantasmi. Mio zio ogni tanto mi faceva conoscere alcuni suoi amici, morti molti anni prima di lui e tutti mi sorridevano, mi auguravano di star bene e poi sparivano; mio zio per ultimo, col suo berretto di traverso sulla testa stempiata, le spalle larghe, il volto mite di albero centenario.
Oggi mi chiedo ancora cosa intendesse con quel cresci! cresci!
Perché mi augurava con insistenza di crescere: che motivo aveva di vedermi adulto, partito e perduto? Al funerale coi parenti, dentro una giacca nera, iniziai ad odiare furiosamente la Svizzera, gli svizzeri, il cioccolato. Ce l’avevo con tutti quelli che smaniavano di salire su un treno e andar via. Non sapevano di perdersi per il mondo e che da quel momento rinunciavano a tutto. Come a un tavolo di poker, si giocavano la vita senza speranza di vincere. I miei amici riempivano le valigie con le loro misere cose. Andavano per mondi lontani ed io non capivo ancora lo strazio che ci annichiliva. Un mostro maligno mi mangiava i compagni. Di loro restavano tracce nei vicoli, nella piazza, dietro il Calvario, nelle campagne sempre più desolate, nell’ampia sala della scuola serale, dove andavamo a guardare i grandi sillabare poesie e farsi correggere i compiti dal maestro.
Partivano, e io mi ostinavo a vederli in giro per il paese
Scendevo alla fiumara, e con me non c’era più nessuno. Poi incominciavo a vederli, uno dopo l’altro, m’ indicavano trote grasse e fischiettavano, ma non sorridevano. Facevo finta di niente all’inizio, li guardavo e tacevo. E tu che ci fai qui? chiedevo. Niente, è una bella giornata, vedo che fai e poi torno a casa. Con quei fantasmi parlavo come se il tempo si fosse fermato, l’acqua della Bruca cristallizzata, la vita mai spezzata. L’emigrazione svuotava il paese. Accanto a noi il mostro si muoveva sicuro e inesorabile. Si ingozzava con la nostra malinconia e ogni tanto ci concedeva delle distrazioni. Come la storia di compare Giacomo.
Si sparse in un baleno la voce di quel duplice omicidio, il vecchio che aveva fatto a pezzi i figli. Io m’intrufolavo nei crocchi dei grandi ed ascoltavo. Com’era possibile? Aveva accoppato i due suoi figli e si era rinchiuso in casa. C’ero anch’io quando i carabinieri andarono a prenderlo.
Le donne in paese uscivano dalla messa vespertina e gli uomini tornavano dalla campagna. Nel volto ossuto, gli occhi dell’assassino erano fessure buie. Pensai che da quel momento in avanti, i suoi figli non avrebbero più bussato, come facevano sempre, con schiamazzi e gli occhi indemoniati, alla porta verdognola del suo podere. Di quelle liti, che da mesi rompevano il silenzio, non si sarebbe più chiacchierato al bar. Io non riuscivo ad immaginarmelo, mentre con l’accetta li faceva a pezzi. Lo avevo sempre visto all’osteria bere il suo solito mezzo litro di vino diluito con una gazzosa. Da quando i suoi figli, contadini come lui, lo minacciavano per avere l’eredità della loro madre, pochi gli facevano compagnia. Non era prudente stargli vicino. Qualche volta lo avevo visto ridere, ma non era un sorriso. E qualche volta mi aveva pagato una gazzosa. Mi chiedeva di andare a prendergli le sigarette dal pacchetto verde e io mi precipitavo dal tabaccaio, consegnandogli le “Esportazioni senza filtro” come fossero una reliquia. Poi, come ogni sera, se ne tornava a casa. A passo flemmatico. S’assestava i pantaloni di velluto, la giacca poggiata sulle spalle. Sono sicuro che, se in quelle serate d’inverno l’avesse incontrato la morte, non si sarebbe scomposto. Le avrebbe offerto una sigaretta. Non aveva paura.
Di lui sapevo che era stato con i partigiani in gioventù, che in Svizzera aveva accoltellato tre tedeschi ubriachi e che per anni era stato in carcere. Avrei voluto essere invisibile quel giorno, perché lui, con le mani incrociate dalle manette, non mi vedesse. Ma come hai potuto farli a pezzi, compare Giacomo? Scosse la testa, mi parve, come per dire: non è stata colpa mia. Se la sono voluta. Qualcuno ha dato al mio destino questo verso. Ebbi paura, e cercai lo sguardo di mio zio, che mi proteggesse da quell’incubo. Ma da un po’ di tempo mio zio lo vedevo raramente, e quella volta chissà dove s’era cacciato. È proprio vero: i fantasmi vanno e vengono, a loro piacimento. Non si fanno indirizzare. Quando li invochi non appaiono, e poi non bisogna mai urtare il loro amor proprio. Se li cerchi con insistenza è peggio. Carne umana sanguinolenta, l’aria trafitta da un dolore acuto: nessuno di loro, figli venuti su male e abituati a trattare con le vacche, a esagerare col vino, l’avrebbe mai creduto che il loro padre, alla fine, li avrebbe sopraffatti nel fango con l’accetta che usava per far legna. Fumavano appoggiati al muro, minacciandolo senza curarsi del pericolo. Altre volte lui aveva abbozzato e col passo sornione di chi s’è imbattuto in uomini più coriacei, cautamente si allontanava. Ma quella volta il diavolo s’è messo in mezzo. Il suo braccio, vecchio ma possente, s’è alzato di scatto, scaricando violenza cieca e morte. Anni di sacrifici in terre ostili, di rospi inghiottiti per tirare la carretta, hanno trovato un punto di uscita truculento, stroncando due vite irragionevoli, come si uccide un animale al macello.
Come può un padre uccidere i figli? Che buio profondo ha risucchiato la sua mente?
Un atroce destino, antico e imperscrutabile, ha fatto il suo corso. Sempre i soliti informati, i giorni seguenti l’arresto, dissero che compare Giacomo dietro le sbarre non parlava più. Una sola frase aveva farfugliato: pagherò il conto. Poi nient’altro, mutismo assoluto. E in paese non si parlava d’altro. Lui conosceva la montagna, perché non s’era dato alla macchia? Berto, il postino, aveva detto che la notte prima dell’arresto, si era sentito compare Giacomo gridare come un animale. E Teresina, la serva del notaio Metello, che faceva la fattucchiera, aveva tirato in ballo la moglie dell’assassino morta d’infarto anni prima. Quella notte, sussurrava Teresina, la morte l’ha chiamato e lui l’ha seguita per la campagna come uno zombi. Sei duro di cuore come una bestia, gli ha detto la morta, e adesso, se non vuoi bruciare all’inferno per sempre, prima di crepare paga il conto. Fino all’ultimo strazio. Don Antonio, parlando in piazza con il farmacista, disse che il prete del carcere gli aveva confidato la causa dell’orrendo misfatto. Non l’ha fatto per tenersi i soldi della moglie. Non è stata questa la ragione. No, l’avarizia non c’entrava. L’offesa ha devastato ogni remora. L’ha accecato sapere che ormai i due figli non lo rispettavano. Per compare Giacomo, i suoi figli era giusto che non campassero più. E non c’entra la giustizia divina o della legge. Chi ha sempre calpestato quelle strade, lo sa com’è, senza compulsare libri sacri o codici. Non si tratta di leggi scritte o divini comandamenti. Ci sono umori profondi e passioni accecanti, amicizie, odi ancestrali, e quando scoppiano, non risparmiano niente. Come una slavina, sommergono ogni cosa.
Ma come dimenticare tutto quel sangue?
Persino la campagna ha avuto gemiti di disperazione, e il prete in chiesa aveva urlato: non si possono massacrare i figli! Dopo qualche mese, di quel duplice delitto non si parlava più. L’inverno rigido sulla montagna chiudeva le case e piazza del popolo restava vuota. Ai comizi di Grazianuzzu con la falce e martello, l’altoparlante sulla Bianchina azzurra parcheggiata di fronte la chiesa di sant’Agnese, accorreva soltanto qualche vecchio con la tessera del Pci e la foto di Stalin nei pantaloni. Le famiglie, o quel che ne restava dopo le partenze di mariti, figli e figlie, sembrava che andassero in letargo. Un pomeriggio mia nonna Anita offrì un bicchiere di vino ad un forestiero che veniva dalla città e che era stato in carcere. Il discorso cadde su compare Giacomo, perché gli chiesi se l’avesse conosciuto. Si, rispose, le mani gli tremano, gli occhi sono due buchi. Ha la vecchiaia marcita. Una malattia lo sta portando alla morte, e a giorni lo lasceranno tornare. Vecchio com’è e mezzo pazzo, se ne sta tutto il giorno a parlare a vanvera con se stesso, a chi volete che dia fastidio?
Un giorno di maggio fu riaccompagnato dai carabinieri nel suo podere abbandonato. Uno scheletro claudicante incuriosì per qualche settimana il paese. I bambini presero a indicarlo come il diavolo da sfuggire e a volte gli lanciavano delle pietre. Le donne, ogni volta che l’incontravano, si facevano il segno della croce e acceleravano il passo. A un gruppetto di giovinastri che si sfidavano a stuzzicarlo, fece una rampogna Pieppi e Muni, un pomeriggio che si trovò a passare da quelle parti con la sua Giulia Sprint GT, un coupé rosso scoppiettante con cui era da poco ritornato da Milano. Disse poche parole Pieppi e Muni. Dovevano lasciarlo in pace: ni capiscimmu? Ca nta vita ci vola rispiettu! Perché nella vita ci vuole rispetto. Era da un po’ che parole come rispetto, onore, chidi cuomu a nui; u Statu si pigghiau tuttu; cu cierti cristiani non si ragiuna; cu piecura si facia u lupu sa mangia, s’infilavano nelle nostre discussioni. Quando parlava Pieppi e Muni, poi, in paese nessuno fiatava. Solo Nando sghignazzava, ma a Nando, lo sapevano tutti, con quegli occhi spiritati e qualche rotella fuori posto, le parole sfuggivano di bocca. È finito in America, e non se ne sa più niente. Qui nel cimitero, dove ci raccontiamo le scorribande delle nostre vite, a volte esagerandole, e ce la prendiamo comoda, bevendo birra e giocando a tressette, Nando è l’unico che non s’è ancora visto…
*giornalista