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il racconto

Confessioni di un cieco

Eccolo lì, pure col caldo africano, a pisciare le sue malefatte quotidiane. Le ha strapazzate così, e la voce s’è sparsa rapida, il sindaco di uno dei borghi cotti dal sole che, dalla pendici dell’As…

Pubblicato il: 10/08/2025 – 11:36
di Romano Pitaro
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Confessioni di un cieco

Eccolo lì, pure col caldo africano, a pisciare le sue malefatte quotidiane. Le ha strapazzate così, e la voce s’è sparsa rapida, il sindaco di uno dei borghi cotti dal sole che, dalla pendici dell’Aspromonte, scrutano il mare cobalto di Scilla e Cariddi. Al mattino, trotterellando, il sindaco, baffetti da tricheco, s’infila nel bar della piazza: “Un caffè nel bicchiere, Totò!” Lo sguardo su un cristiano smilzo, seduto a gambe incrociate, la testa incartata nel giornale; e poi, con voce squillante: “Che stronzate ha pisciato oggi l’amico nostro?” Lo vedo, boxer grigio e petto nudo, gli occhi cerulei spiaccicati nel monitor del computer impiastricciato di cenere. Lo vedo, io che sono cieco e gli articoli del giornale me li faccio leggere da mia sorella che, per la gravosa cortesia, esercita su di me un potere assoluto. Anche se, da un miserabile cieco, c’è poco da cavare. Eccolo: nel soggiorno di un appartamento al quarto piano del palazzo di cemento grezzo mai finito, come i tanti che imbrattano la marina. Gli appartamenti sopra e sotto al suo sono vuoti, e Andrea, in attesa che i suoi parenti australiani si decidano di completare la costruzione, occupa le tre stanze destinate al guardiano della ditta che aveva iniziato i lavori, la prima, poi ce n’è stata una seconda e una terza. A sera, l’assenza di rumori rende il palazzo lugubre e sconsolato. C’è una sola boccata di speranza: l’affaccio sullo Stretto, che cattura lo sguardo e concede fugaci gocce di felicità. Una breve parentesi, tra il cemento onnivoro e un angoscioso senso di provvisorietà.
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Il mare nostro abitato da sublimi eroi greci e spaventose femmine con sei teste che insidiano i naviganti, si lascia ora placidamente solcare da mostri marini giunti da terre sconosciute e stracarichi di container. Dal balcone senza ringhiera, la mattina Andrea stende il braccio e prova a stringerlo nel pugno il mare; è un mistero, quando apre la mano e non c’è niente. Sogghigna, tra boccate lunghe di fumo.
Un tavolo di castagno per scrivania, un divano rosso a zampa di cavallo dal tessuto resistente ma con scuciture laterali, regalo di un suo zio pasticcere convinto dalle figlie a disfarsene. Sparsi sul pavimento e ficcati in una sgangherata libreria dell’Ikea, i libri su cui ha studiato a Roma, per diventare dottore in filosofia con una tesi sulla dialettica della verità nel pensiero di Soeren Kierkegaard. Sua madre lo fissa dal davanzale della finestra. Da lei ha ereditato l’azzurro acquoso degli occhi, il naso aquilino e un ettaro di vigna inselvatichita. Accanto alla foto della madre, quella del padre, sparito prima che lui nascesse. Su quell’unica immagine sfocata, Andrea ha meditato a lungo. S’è illuso, tormentandola con i polpastrelli, che prima o poi tornasse, ricco, senza un soldo, grasso, senza una gamba, disperato; “ma tornasse, perdio!” La speranza di ritrovarlo non l’ha mai accantonata. Perciò è diventato, appena scoperto il fascino di quel diavolo tentatore d’Internet, un navigatore incallito, compulsivo e geniale. Un argonauta non a caccia del vello d’oro sulla celebre nave, ma di notizie e immagini. E ogni tanto del padre.
Un vero esperto di segreti informatici, tant’è che ancora lo chiamano i suoi amici di Roma, quando incappano in una trappola del cyberspazio. Andrea nella Rete si muove a suo agio. Rapido, disinvolto, impavido. Gli piacciono lo spazio e il tempo condizionati soltanto dai desideri. Scova dati, episodi obliterati dalla memoria, curiosità con cui rende accattivanti i suoi articoli. C’è però un punto debole nella Rete onnisciente. Non gli dà notizie del padre: “Fottuta carogna!” Ogni volta, prima di spengere il computer, digita senza neanche guardare i tasti, un nome: Vincenzo Altomonte. Benché il patto stretto con la Rete sia per la vita e per la morte, benché lui si senta uomo digitale fino al midollo, il mondo immateriale finora non l’ha accontentato. Darebbe l’anima, se la Rete gliela chiedesse. Invia il nome di suo padre nell’intrigo elettromagnetico, dove se capita che Aristotele incroci Marx e Giasone prenda un caffè con Brecht, non è detto che lui non possa imbattersi in quell’uomo che cerca da quand’è nato.
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L’ha creduto davvero possibile, qualche volta.
E intanto piscia i suoi articoli. Le malefatte si sommano, recano la sua firma. E’ un collaboratore esterno del quotidiano locale, pagato male e non sempre; ma s’è guadagnato la stima dei colleghi della redazione. I suoi pezzi non passano inosservati. Nomi e cognomi di amministratori insipienti che assumono comandanti di vigili senza che il comune abbia un solo vigile, furbizie quotidiane svelate con puntiglio, delibere che violano leggi, depuratori intasati, espropri di terreni non leciti e altri fermati per paura. Un articolo al giorno, un nemico in più. Un bell’affare! Perché qui la gente, caro Andrea, se gli vai contro, mica ti viene a dire quel che pensa. Qui te li fai nemici, per la vita e anche dopo. E iniziano da un banale disguido gli oscuri intendimenti. Una sera torni a casa e non sai neanche chi, e perché, ti assesta una coltellata nel costato. Io che sono un vecchio cieco, e che l’ho in simpatia, ho anche tentato di farglielo capire, lui però sguaiatamente ridacchia. E invece dovrebbe impensierirsi. Quando provo a spaventarlo: guarda che ti sparano nel culo!, mi risponde da gallo impettito: “Quale mafia e mafia! La mafia con la m grande serve a chi fa le conferenze al Nord. Qui, io vedo solo rozzi vaccari arricchiti grazie al silenzio della gente. Fanno il bello e il cattivo tempo, perché nessuno li mette in carcere e butta via la chiave”. Secondo me, Andrea ha letto troppi romanzi. E’ stato lontano dieci anni. Si è scordato delle usanze di queste parti. C’è qualcosa, in lui, che non torna più. Io neanche tento di capire cosa sia la “Critica della ragion pura” che lui infila nei suoi articoli, anche in quelli che danno notizie di fogne a cielo aperto e il mare sporco di merda. E quando mia sorella li legge, mi domanda qual è il nesso tra una fogna che sbocca nel Tirreno e Kant, le cui parole fanno da sfondo al desktop del suo computer: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Non c’è nesso. Ecco com’è: Andrea è pazzo, punto.
Io che ho avuto sua madre, e da lei sono stato amato, so quel che dico: la pazzia è un verme che da più generazioni molesta la sua razza. Suo nonno, dopo la guerra, è partito per Buenos Aires e non è più tornato. I suoi parenti l’hanno cercato per anni, prima di scoprire che a Rosario era diventato un ballerino di tango e aveva un’altra moglie e cinque figli. La madre era bella, sì, ma pazza. Così ha sposato uno spaccone, finito in qualche pilastro di cemento o in pasto ai maiali. Lo troveranno un giorno, senz’altro, ma quando della mafia non ci sarà più memoria, quando gli uomini su questa terra si saranno estinti.
L’articolo pubblicato oggi dal giornale è più grave di un delitto, è mettersi sotto i piedi il tabernacolo e sputarci su. Chissà se il pazzo se n’è reso conto. Lo vedo, a volte i ciechi vedono di più, andare all’appuntamento con Turi, il guardaspalle di Angelo Pignataro. Prima di uscire dal palazzo disabitato lo vedo arrotolarsi le sigarette con tabacco Old Holborn. Anche la fissazione di farsi lui le sigarette, che minchia di stravaganza! Lo vedo mentre due tarchiati ceffi lo stringono dalle braccia e altri due lo scuotono con schiaffi e pugni, e la bocca è un grumo di sangue misto alla sabbia della spiaggia del Lido degli Aranci dove gli hanno dato appuntamento. Uno dei quattro gli sussurra all’ orecchio: “Sei un cane malato. Ora vediamo, se scrivi ancora su quella carta di merda. Se ci provi ti facciamo sparire, come è già capitato a chi sai tu…” Lo vedo destarsi, neanche il dolore della schiena squassata dalle mazzate lo trattiene: s’aggrappa alle gambe di Turi. “Cos’hai detto? Spiegati meglio, Turi…” Ora non vuol sapere dell’intreccio tra il parlamentare ex assessore della Regione e Angelo Pignataro, che secondo le intercettazioni trattava il politico come un pupazzo e lo usava per vincere le gara d’appalto per i lavori di rifacimento della strada statale. Ora, pestato a sangue, Andrea dei lavori pubblici se n’infischia. Chiede del padre. E Turi, il boscaiolo in pensione da quindici anni, ha le risposte che neanche Internet possiede.
Turi capisce cosa chiede Andrea, perché sa la risposta. Si china, lo afferra dal mento, come uncinasse con la mano un agnello da scannare, lo guarda negli occhi gonfi: “Era una merda! Le merde fanno la fine che meritano. Tu ora sai come comportarti. Noi facciamo cemento puru a tia, se ci fai incazzare, per ora considerati fortunato, perché c’è un santo che prega per te” Vedo anche, io che sono nel buio, Angelo Pignataro che legge l’articolo di stamattina, dove sono snocciolati anche i consigli che dava all’onorevole per telefono. Lo vedo mentre legge il titolo, veloce arriva alle ultime righe con la sigarette incenerita fra le labbra; mentre si ferma incredulo. Lo vedo, in piedi nella cantina della sua casa, immersa tra i faggi e le querce, dove s’incontra coi suoi sgherri. E ora non spiccica una sillaba. Ma pensa, e subito minimizza, dato che Turi impreca: “Dobbiamo fermarli questi porci!”. Ma lui, Angelo, carezzandosi la barba ispida di una settimana: “Non dire puttanate Turi. Quietu! Statti quietu. Non ti caricare, che non serve”.
E Turi, che è largo di complimenti con chi offende il suo padrone, si sfoga a colpi di bestemmie all’indirizzo di Andrea. E scomoda i santi. “Tutti i santi!”, esplode. Incrociando lo sguardo del suo capo, spiega che il suo non è il punto di vista di uno col sangue agli occhi. Ha messo insieme due tre frasi Turi, che hanno suscitato approvazione negli altri malandrini seduti al tavolo a bere cognac; è segno che s’evolve Turi, che è capace non solo di accoltellare chi viola le sue regole, ma anche di darsi una strategia.
Sbotta:“Di questo passo, i nostri nemici, si credono che noi siamo imbecilli e non sappiano neanche ammutari un cotraro che ha l’occhio spavaldo, e pare che ti vuole prendere in giro anche quando ti chiede scusa. Perché, è vero, compare Angelo, quello non chiede scusa neanche quando chiede scusa. Ha il sorriso puttanesco. Voi lo sapete che lo fa apposta a comportarsi cosi, per guadagnare tempo e cacare sentenze, ma lui è un giudice forse? Neanche i giudici fanno le sentenze come le fa lui, che c’è sempre una possibilità, una speranza, un motivo di tranquillità. Lui, invece, caca come gli viene su questa carta che non è buona per pulirsi il culo. Vede le cose, le infila una dietro l’altra, e le scrive. Ma noi siamo cosi stupidi da non capire che quello ci ha puntato? E che se non glielo andiamo a dire non mollerà?”
Angelo Pignataro evita la trappola di Turi. Non si scalda. “Non correre Turi, non dire cazzate. C’è tempo, e poi oltre a noi queste schifezze chi le legge? Pochi, e poi tra qualche giorno è ferragosto. Ma tu vallo a trovare, diglielo ad Andrea che io sono dispiaciuto, a modo tuo, si capisce, come ti viene a te, però senza esagerare. Non deve sapere che noi il suo gioco l’abbiamo inquadrato. Noi dobbiamo capire chi lo muove”. Turi annuisce, sa che non può insistere. Turi “u surdu”, cosiddetto per via di un orecchio bucato da un proiettile dieci anni fa durante un pranzo in montagna, stavolta non capisce. Quale gioco c’è da scoperchiare ancora? Perché il suo padrone non gli consente di mettere a posto quel cotraru maleducato? Non disubbidisce mai Turi. Perché compare Angelo per lui è il padreterno. E al padreterno si dice sì, pure se non capisci qual è la sua idea. A quest’ora, fosse dipeso da lui, Andrea non scriverebbe più, non perché l’ avrebbe già ucciso, ma perché gli avrebbe spezzato le dita. Tanto per ricordargli che se non ti comporti bene campi malamente, e non per una ragione di mafia. Per una ragione di mafia l’avrebbe ammazzato all’istante, dice uscendo con gli altri due soci dalla villa di compare Angelo, ma per una ragione di educazione. Quel cotraru è maleducato: “Se non sai vivere educato, e non sai come trattare le persone che contano, ti partono le dita, prima, poi una gamba e poi vediamo se il rispetto l’impari”.
“Il problema”, gli spiega il suo padrone prima di salutarlo, “è che questi giovani non si rendono conto dei guai che combinano. Sono cresciuti senza guide, per tanto tempo io, gli amici e i nostri nemici, siamo stati in carcere per errori di valutazione, abbiamo sbagliato a farci la guerra tra noi e l’abbiamo pagata cara, cosi nei nostri paesi non abbiamo potuto seguire i giovani, quelli che stanno con noi e quelli che, se anche non stanno con noi, ci vivono accanto. Dobbiamo pazientare, Turi, capisci?” Turi non risponde, ma abbassa lo sguardo, perché altrimenti la rabbia gli esplode dagli occhi. Fortuna che Andrea ha il santo che lo salva.

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E non è un parente australiano. Non è un santo della chiesa. Un cieco è, per giunta afflitto da una sciatica maledetta. Un non vedente a cui nessuno riconosce una briciola di potere. E io il potere di salvargli la vita ce l’ho, perché sono un fratello di sangue di Angelo Pignataro, e per questa volta, l’ultima, il pazzo se la caverà. Come può pensare, lui, di fermare un treno in corsa? Compare Angelo smuove la terra con le sue gru, i suoi escavatori potenti, i suoi camion, ha le mani forti come due pale. I suoi mezzi vanni su e giù, lavorano per i privati e per le amministrazioni comunali, per lo Stato e per alcune grandi imprese, e fanno affari con i politici. Ha una cicatrice sulla guancia destra, il ricordo di uno che in carcere l’ha segnato per la vita, perché lui l’ha ammazzato e c’è un processo in corso; e se quell’omicidio gli è valso il rispetto dei suoi pari gli ha anche creato fastidi, avvocati e giudici scassapalle, testimoni da comprare o minacciare. Adesso sulla sua strada si mette di traverso Andrea, che scrive sul giornale dei suoi appalti e della sua vita di prima e di adesso, e lui sospetta “che ce l’ha con me forse per via di qualcuno che lo istiga, qualcuno che si annida nel Palazzo di Giustizia. Forse qualche mio nemico lo paga, come dice Turi, e se è cosi quest’affronto si lava in un solo modo”. Cosi io, il cieco, sono andato a trovarlo e gli ho detto che Andrea è sangue mio e sangue suo. Il legame di sangue frena l’istinto della bestia assassina. E gli ho spiegato che l’unico torto che ha avuto sua madre è stato di mandarlo a studiare a Roma e poi di farlo tornare. Qui Andrea s’è messo a fare il giornalista, ma si può senza nessuna cautela e senza prove scrivere sui fatti degli altri? “Le leggi non servono a un emerito cazzo”, spiega Turi, quando tratta l’argomento col suo padrone. Lui che di leggi violate se ne intende, “e oggi noi, che fatichiamo come lupi per tenere in piedi un’industria che dà lavoro e produce ricchezza per tanti e che se non ci fossimo noi morirebbero di fame, dobbiamo stare sotto schiaffo di chi? Di un cotraru, che non ha neanche trent’anni e che della vita non sa niente”. Come poteva pensare Andrea di fermare tutto questo. Un pazzo, ma questo l’ho già detto. Lo vedo, come se l’avessi di fronte, rantola per il dolore, la camicia lacerata, zoppicando verso casa, un fazzoletto zuppo di sangue in mano, la vista appannata e da un orecchio non ci sente. Il padre era uno del giro di Pignataro, e un motivo l’avranno avuto per farlo sparire. I pensieri come aghi acuminati lo trafiggono. La madre, che l’ha tenuto all’oscuro, il cieco premuroso, Kant e il cielo stellato, che visto con occhi turgidi e il naso sanguinante è una schifezza, i suoi amici di Roma e i colleghi del giornale che aspettano un altro articolo su Pignataro per stasera. Andrea è confuso, non sa più chi sono i giusti, sa solo che la forza del male ti strappa la pelle e ti brucia il respiro. Non c’è scelta in queste strade mute per paura. Lo chiamano dal giornale, non hanno ancora ricevuto ancora nulla. E lui: “Ma no, su Pignataro non c’è da aggiungere altro. Abbiamo scritto tutto”. La ragazza dall’altra parte del telefono, non insiste: “Non preoccuparti, daremo più spazio al pezzo sullo sbarco d’immigrati a Isola Capo Rizzuto”. Andrea adesso s’è seduto, s’accorge di non avere chiuso il computer prima di uscire. Dopo avere scritto il nome del padre su Google, non ha premuto invio; istintivamente, il polpastrello batte sul tasto, ma subito si rende conto dell’inutilità del gesto e interrompe la ricerca premendo canc. Fine del gioco. Rien ne va plus. Adios! Internet non può altro. Non ha saputo dirgli ciò che un ex forestale con la terza elementare conosce da sempre. Per anni, ha lanciato il nome del padre nei grattacieli opulenti e filiformi della Rete, fra le città translucide e smisurate, scrigni d’ogni ricchezza immaginabile del terzo millennio, tra miliardi di fili invisibili il cui inizio e la cui fine non c’è scienziato che sappia misurare. Io stasera, dopo cena, passeggio. Due passi, come sempre e col mio amico di sempre, sono il mio elisir della felicità. A lei non penso più, e al figlio, d’ora in avanti, ci penseranno altri. Dal mare s’alza un venticello che smuove la foschia. Al mio amico chiedo l’ora. Sento una stanchezza alle gambe che stanotte forse mi farà riposare. La giornata è stata lunga e io, vecchio e cieco, ho visto troppo. Ma la coscienza ce l’ho pulita. Quello che dovevo fare l’ho fatto. Tra qualche giorno, Andrea tornerà a Roma. E tra un paio di settimane, andrà a Sydney dai suoi parenti. Lontanissimo da noi. Da quest’aria che per respirarla ci vogliono polmoni di ferro; da questo mare traditore che, dopo che lo guardi per anni, pensando di essertelo fatto amico, capisci che di te se ne sbatte. E che se non porta più nemici, porta cattivi pensieri. E’ proprio tardi, non c’è tempo per filosofie sulla casualità degli eventi o sul burattinaio che muove i fili delle vite a suo piacimento. Peppe, che ore sono? “Nuddura è!”, mi risponde. Nessun’ora è. Il tempo, dopo mezzanotte e dopo che accadono cose che nessuno sa più rimettere a posto, non scorre più.

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