‘Ndrangheta, il laboratorio di dolci a Cervia nel mirino dei clan e le minacce: «Ma lo sa che siamo calabresi?»
Per i giudici «pienamente attendibile» la testimonianza dell’imprenditore che riscostruisce l’estorsione: «Mi disse: “Piuttosto che ridarti l’azienda, te la brucio»

RAVENNA «Ma non lo sa che lui è calabrese?». Avrebbero fatto leva sulle proprie origini, intimando il proprietario della società a cederla alle loro condizioni e non a quelle pattuite in precedenza. È stata proprio la testimonianza della vittima, per i giudici ritenuta «pienamente attendibile», a portare alla condanna per estorsione con l’aggravante mafiosa per Saverio Serra, Alessandro Di Maino, Francesco e Rocco Patamia, tutti condannati in primo grado nel processo Radici. Il collegio giudicante del tribunale di Ravenna, dopo aver escusso i vari teste, tra cui il precedente proprietario della società, li ha ritenuti colpevoli considerando valida la ricostruzione proposta dall’accusa.
Il laboratorio dolciario a Cervia
La vicenda si svolge nel Ravennate e ruota attorno una storica azienda dolciaria con un laboratorio a Cervia, dotato di furgoni, una linea industriale automatica e attrezzature di valore. Il precedente titolare, padre del teste, date le sue gravi condizioni di salute aveva deciso di vendere la società. È qui che entra in gioco Francesco Patamia, ritenuto dagli inquirenti al vertice di quella che è stata definita «galassia Patamia», ovvero un sistema di società prima fondate o acquistate per poi essere depauperate e portate al fallimento. L’imprenditore di Cervia nel 2018 firmò un atto di compravendita con la Dolce Industria Srl dei Patamia, per un valore di circa 406 mila euro. È in questa occasione che il figlio del proprietario conosce Patamia, dando inizio ad un incubo che lo porterà a vivere anni difficili segnati da «minacce e vessazioni».
«Basta digitare su Google il nome dei proprietari»
Appena dopo la morte del padre, viene convocato da Patamia che gli avrebbe riferito che «Dolce Industria Srl versava in una difficile situazione economica» e quindi avrebbe dovuto «risolvere il contratto stipulato e di concluderne uno nuovo con la F.P. Group Srl». Di fronte ai suoi tentennamenti, Patamia avrebbe risposto che se lui si fosse opposto «ci sarebbero state conseguenze personali». Conversazioni che, secondo il racconto del teste, si sarebbero ripetute più volte: anche Di Maina, in un’altra occasione, avrebbe invitato lui e gli altri dipendenti a evitare “ostruzioni” «lasciando intendere che fossero persone pericolose». «Io vi consiglio – avrebbe detto secondo il racconto del teste – di pensarci bene perché basta digitare su Google il nome dei proprietari per capire che non bisogna remare contro queste persone».
L’incontro con il registratore acceso
Lo stesso Di Maina, di fronte a un dipendente adirato per il mancato pagamento, avrebbe detto: «Ma cos’è, pazzo, che viene lì e minaccia Francesco? Ma non lo sa che lui è calabrese, siamo calabresi, quello fa una telefonata e ha finito?». Il figlio dell’imprenditore, rimasto ormai senza azienda e senza pagamenti effettuati, si sarebbe recato in un incontro successivo con Patamia con tanto di registratore proprio per «timore». Qui nel richiedere nuovamente che venissero effettuati avrebbe ricevuto da Patamia come risposta un’ulteriore minaccia: «Sappi che io, piuttosto che ridarti l’azienda indietro, te la brucio; te la brucio con la benzina».
Le motivazioni dei giudici
Dopo diversi mesi, il titolare viene a sapere che il laboratorio di pasticceria «era stato dato in gestione a tale Saverio Serra», che di fatto avrebbe operato come gestore senza alcun titolo per farlo. Un iter illecito che avrebbe portato al completo svuotamento del laboratorio di pasticceria, ritrovato «completamente vuoto» in un sopralluogo del titolare qualche tempo dopo, con tutte le attrezzature trasferite altrove. Per i giudici regge la testimonianza del titolare, che ha reso «una descrizione estremamente sobria» degli eventi con descrizioni «minuziose», a cui si aggiungono anche le altre dichiarazioni che ne hanno confermato la versione. L’estorsione, secondo i giudici, è dunque finalizzata a «lasciare il laboratorio di pasticceria nella disponibilità degli imputati nonostante l’inadempimento del contratto originario». (ma.ru.)
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