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l’intervista

Liliana Carbone, 21 anni di lotta e dolore: «Mio figlio Massimiliano giovane per sempre»

Il 30enne morto a Locri il 24 settembre 2004 a seguito di un agguato. Un pentito rivelò: «Ebbe una relazione con una donna che interessava ai Cordì»

Pubblicato il: 24/09/2025 – 8:18
di Mariateresa Ripolo
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Liliana Carbone, 21 anni di lotta e dolore: «Mio figlio Massimiliano giovane per sempre»

LOCRI «“Chi nomina chiama, e chi è chiamato accorre”, e così, settembre dopo settembre, da 21 anni la Memoria di mio figlio si riaccende, risplende, sollecita magari compassione ma certamente indignazione. Questo desidero, e Massimiliano continua a vivere». Continua a vivere nelle parole di mamma Liliana e di chi ha conosciuto e amato Massimiliano Carbone, il 30enne morto il 24 settembre 2004, a seguito delle gravi ferite riportate nel corso di un agguato a Locri. I suoi assassini lo aspettavano sotto casa, nascosti dietro un muretto. Era il 17 settembre del 2004 e come ogni venerdì, il giovane era andato a giocare a calcetto con gli amici. Stava rientrando a casa quando fu raggiunto da un colpo di fucile all’addome. Il 30enne venne portato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Locri, ma morì dopo sei giorni di agonia, il 24 settembre, il giorno del compleanno di sua madre Liliana. «Tanti, insopportabilmente troppi, i miserabili che agendo o bisbigliando o tacendo hanno spezzato Massimiliano, il suo diritto di vivere sogni e progetti e la sua paternità. E miserabili quelli che giudicano me perché non ho deferenza per la loro opinione, perché non mi rassegno all’indifferenza e all’oblio e oltre il tempo che passa impietoso chiedo Memoria… Non perdono, non posso dare per-dono, in regalo, la vita di mio figlio e neppure il peso del nostro dolore. E non mi scuso se non parlo dei sorrisi, come altre mamme fanno». Così Liliana racconta al Corriere della Calabria il dolore lacerante di una madre lungo 21 anni: «Ogni volta che esco da casa o rientro, passo accanto al sangue di mio figlio, che coprii con un vaso dopo averlo accompagnato all’obitorio. Dal mio balcone vedo il muretto dietro il quale si appostò il killer».

Una lotta per la verità lunga 21 anni

Una donna e una madre che da anni lotta strenuamente per fare emergere la verità in una terra, la Locride, che di morti per mano della ‘ndrangheta ne conta tanti. «Per un figlio malato si fanno sacrifici, si affrontano difficoltà, ci si arrampica tra le spine per cogliere una pianta medicamentosa, si prega e si spera negli uomini e nel proprio dio. E’ stato così, ed è ancora proprio così. Non definisco “lotta” l’avere deposto nella caserma dei Carabinieri di Locri quando ancora mio figlio non si era fermato, assistito nell’Ospedale Civile durante la tremenda lunga agonia da persone magnifiche, generose e competenti. Non considero “lotta” avere adito tribunali, esercitando i diritti di una parte lesa, la mia famiglia, e i miei doveri di persona informatissima su fatti accaduti fin dalla primavera del 1998. Ho raccontato dapprima al sostituto procuratore procedente per l’omicidio, e in seguito al Procuratore presso il Tribunale per i minorenni un percorso di sofferenze, di angoscia, di trepidazione, di minacce fatte con fucili da caccia e proiettili numerosi; già il giorno dell’Epifania del 1999 ci era stato anticipato “piombo per tutti”. Ho fornito riscontri e prove, ho fatto ritrovare verbali, così si è affermata la mia credibilità presso gli inquirenti. Dunque, seppure sfinita, non credo che chiedere verità e giustizia sia meritorio, eroico, straordinario, ma  che sia, in qualsiasi forma, soltanto necessario. Forse ho portato nelle case una storia complessa e difficile attraverso la tv e i giornali, ma i media sono assai ben disposti allo storytelling di vicende che fanno scalpore. La voce di una madre che ancora oggi e per di più in territori di ‘ndrangheta potente e di delitti efferati e impuniti continua a chiamare il proprio figlio morto ammazzato a 30 anni lascia un’eco forte nel cuore di tanti, in ogni tipo di target di ascolto, così come nei  giornalisti sensibili e generosi».

«È stato ucciso perché aveva avuto una relazione con una donna che interessava ai Cordì», rivelò nel 2017 un collaboratore di giustizia. Qualche anno prima della sua morte, Massimiliano aveva infatti iniziato una relazione con una donna che, poi si scoprirà, essere sposata. Una relazione dalla quale nascerà un bambino: sarà un test del Dna effettuato dopo la morte del 30enne ad accertarne la paternità. Ad oggi non esiste nessuna verità giudiziaria: l’unico indagato è stato prosciolto e il caso sull’omicidio è stato archiviato nell’ottobre del 2007. «Più propriamente – ci racconta mamma Liliana – la mia battaglia è, tuttora, scontrarmi con la disinformazione a proposito di certi aspetti della vicenda umana e giudiziaria, ma non ho certo voglia di istruire gli ignoranti, o di fare un dazebao con l’illustrazione di fatti e persone». E sul quel figlio che Massimiliano non ha potuto vedere crescere, Liliana afferma: «Dico che il bambino oggi è un 26enne del quale non garantisco sensibilità e intelligenza, sia pure con la compatibilità genetica pari al 99,99999… con l’intera mia famiglia, soprattutto con i maschi di casa Carbone. E potrei aggiungere che l’unicità, la preziosità, il valore umano non si misurano attraverso alcun tipo di titolo di studio».

«Mio figlio Massimiliano giovane per sempre»

Liliana non nasconde l’amarezza e il dolore: «Continua a farmi lo stesso male l’incomprensione, quella percezione di essere considerata come un insetto molesto da allontanare». «Sarebbe accaduta una storia così in altre regioni?», si chiede mamma Liliana: «Il sangue, la vita e la morte sono disposti ad apparire al minimo pretesto, ma qui ci sono i tratti propri di un atteggiamento culturale che vuole continuare a custodire l’immagine della famiglia del mulino bianco, e la rilancia alle Istituzioni. Me lo conferma una le tra tante oscene intercettazioni, in cui la donna del 1965 che rese padre mio figlio 23enne dice al marito davanti a notifiche giudiziarie: “Oh, te l’immagini che figura fa la nostra famiglia per bene?”».
Nonostante le indagini e le dichiarazioni di un pentito, dal punto di vista giudiziario non ha ottenuto giustizia per la morte di Massimiliano. Crede ancora nella Giustizia? «E’ un cold case non più punibile, perché sono ormai irraggiungibili gli organizzatori, quelli che hanno dato il consenso e la lupara, che hanno stabilito luogo e occasione e protezione, che si sono spartiti le migliaia di euro e le armi di cui si simulò il furto, che non potevano essere diversamente cedute senza documentazione».
«Nulla ho da rimproverarmi, – aggiunge mamma Liliana – perché ho sempre parlato di Bellezza, e della Vita, più che della morte, del mio ragazzo di Locri, mio figlio Massimiliano Carbone giovane per sempre. Mi rammarico invece di avere proposto speranza ai giovani con troppo mio convincimento e passione. Con il tempo, e con i brutti modelli di riferimento etico e sociale manovrati da una politica egoista e mendace, il concetto di Giustizia si è rarefatto. Una chimera, un’utopia. Non mi resta che la raffigurazione letteraria di Edgar Lee Masters, cruda ed immaginifica, una donna che regge una bilancia e una spada, insegne del suo potere, alla quale un bimbo innocente strappa la benda che porta sugli occhi. E questi appaiono corrotti. Marci. In certi paesi, e non ne siamo lontani… legalità e Giustizia sono parole roboanti, abusate da predicatori nani che stanno in alto su una caterva di codici, distanti dalla vita e dalla morte come gli stiliti nel deserto, e degli uni e degli altri mi domando quale mai possa essere l’utilità per il genere umano».

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